POTENZA, UNA NARRAZIONE IDENTITARIA

Cosa è veramente Potenza, qual è la sua verità, qual è la sua identità (la verità su se stessa), qual è la sua natura, cosa ci racconta veramente la sua storia? Qual è il suo senso per la Lucania e finanche per l’Italia? Ha caratteri specifici tali da ricavarne una narrazione e qual è, in altre parole, la sua narrazione? E’ un problema che fino a pochi mesi neppure ci si poneva, non da ultimo, perché su questa città, una delle cento città d’Italia, le idee non sono mai state chiare. C’è una nebulosa di mistero storico e di contraddizioni che hanno fatto sempre da velo ad un discorso narrativo sulla identità della città. Neanche il discorso ‘‘dell’inizio”, della fondazione, è mai stato veramente chiarito. Per fare un solo esempio, fino a pochi anni fa soltanto, il parere degli studiosi era che il documento o il reperto, diciamo la traccia, di maggiore antichità della città fosse del I° secolo avanti Cristo, ma, nel 2008, casualmente, nella zona periferica di Gallitello è stata rinvenuta una fattoria di epoca pre-romana (lucana) del IV° secolo avanti Cristo; una sorpresa che costringe a riformulare per l’ennesima volta le ipotesi sulle origini, sull’inizio, anche se non è di questo specificamente che voglio parlare in questa sede. Detto molto brevemente, la città esisteva già da prima della discesa dei Romani in Lucania. I Lucani erano un popolo osco, come i Sanniti, e, quindi, concepivano le città all’uso osco; non una città vera e propria come la intendiamo già da molti secoli, ma un insieme di vichi ed insediamenti distaccati e molto piccoli. La città, così intesa, esisteva, quindi, già da prima dei Romani e se non fosse stato così non sarebbe comprensibile la notizia riportata dal Racioppi ed attribuita a Plinio, secondo la quale Potenza faceva parte della antica federazione lucana, di cui era uno degli undici cantoni federati. Da questo punto di vista, la Potenza pre-romana e antico-lucana doveva avere una forte connessione, ancora non ben chiara, con il santuario federale lucano di Rossano di Vaglio e con il sito di Serra di Vaglio. Un’altra forte e indubitabile prova di questo filo diretto è costituita dal culto della Dea lucana ed osca Mefitis (Mefite), che, ad un certo punto, decaduti i due siti di Rossano e di Serra, si trasferisce a Potentia, cioè a Potenza mentre Potentia era già in piena epoca Romana. Con la conquista Romana si ha, sostanzialmente, una rifondazione della città, anzi, la città comincia ad assumere la sua forma attorno al suo nucleo originario, che è ancora quello attuale (il centro storico). L’ipotesi più ragionevole è che i Romani abbiano dato un nuovo nome, o, semplicemente, un nome a qualcosa che esisteva già nello stesso posto prima di loro, ma con la sola differenza che con la conquista Romana il nucleo della città prende forma e si concentra in un luogo soltanto e cioè dove si trova tuttora e dove si è sempre trovato; il centro storico. Fatta l’indispensabile premessa sulle origini, posso cominciare ad inoltrarmi nel cuore del discorso sulla identità di Potenza, nella narrazione su Potenza. Perché Potentia? I Romani mettevano ad alcune città da loro fondate, o rifondate o conquistate, dei nomi, per così dire, augurali, terminanti con la desinenza –entia. Così nascono le città di Florentia (Firenze), la fiorente, Faventia (Faenza), Vincentia poi assestatosi come Vicentia (Vicenza), la vincente, Placentia (Piacenza), la piacente e Potentia (Potenza), la forte, la potente. Cosa vuol dire veramente, cosa vuole significare veramente questo nome? E’ stato augurale, è stato profetico? Qual è il senso vero, profondo e specifico racchiuso in esso? Sono domande che, dopo duemila e quattrocento anni dalla sua fondazione, assumono un altro significato, ma anche un significato più preciso, se riusciamo ad evidenziare ed a collegare i fili nascosti che attraversano la città per più di due millenni. Se riusciamo a riannodare i molteplici e sparsi fili della memoria in una unica trama narrativa. Potentia, nomen omen oppure no? Questo suo nome è del tutto casuale oppure è il primo segreto della sua identità profonda? Dipende. Tutto dipende da come interpretiamo quell’augurio o quella profezia di forza, di potenza. Secondo me, il senso della storia di questa città è effettivamente già racchiuso nel suo nome (e nel suo stemma), a patto che diamo ai concetti di  ‘forza’ e di ‘potenza’ delle connotazioni particolari. In altre parole, la potenza di Potenza, non è una potenza che domina e che colonizza, al contrario della potenza romana o della potenza di altre città italiane, che sono riuscite a conquistare dei domini in vari momenti ed in vari ambiti (pensiamo alla potenza coloniale e mercantile delle città marinare Pisa, Genova e Venezia, alla potenza economica e finanziaria di Milano, alla potenza militare e politica di Torino, grazie alla quale è stato possibile unire l’Italia, e così via). La forza o la potenza di Potenza è di tutt’altro tipo. E’ forza di resistenza, non di dominio. E’ forza di resistenza anche al dominio. E così fu al dominio romano. Potenza, la città della federazione lucana più prossima al santuario federale di Rossano, resistette incredibilmente alla potenza militare romana insieme a tutto l’antico popolo lucano. Nessun popolo italico dette a Roma tante preoccupazioni come quello Lucano insieme a quello Sannita.  Per tanto, tanto tempo, fino alla resa definitiva e totale dopo la sconfitta lucana nelle guerre sociali, i Lucani e, quindi, anche i Popoli Potentini (uno degli undici cantoni della antica federazione lucana) resistettero eroicamente e fieramente alla città che nei secoli successivi costruì il più grande impero dell’Antichità. Emanuele Viggiano ci dice che la vendetta di Silla si abbatté contro sei città della Lucania antica, tra le quali Potenza, sottomettendone i cittadini e riducendo queste città a colonie militari (Viggiano prende la notizia da Appiano, ma, a differenza dello storico latino, non ritiene che Potenza sia mai stata colonia romana). Dell’esistenza, invece, dei popoli Potentini (e, quindi, debbo supporre, della città già in epoca lucana) parla un altro grande storico della storia antica di Roma, Plinio il Vecchio, che nella sua Historia Naturalis elenca tutti gli undici popoli che formavano la Nazione Lucana (Plinio il Vecchio, ‘Historia Naturalis’, libro tre, paragrafo 98). E dopo che Silla ne fece straziante oggetto di vendetta, radendo le sue mura, Potenza si riprese abbastanza presto, come sottolinea il Viggiano nel suo classico ‘Memorie della città di Potenza’ (cfr. pagina 43) dove scrive: “Non si ometta però di riflettere che il popolo potentino non tardò molto a ristorarsi degli affanni passati nelle terribili convulsioni delle guerre civili”. Ed infine aggiunge che, presto ripresasi dalle rovine delle guerre civili e dalle vendette dell’esercito romano di Silla, Potentia, così come risulta dalle pietre antiche dell’età imperiale, poteva vantare la presenza di “tante magistrature coloniche e municipali” al punto tale da testimoniare che “florido era allora lo stato della città”. Del resto, la forza di resistenza di Potenza è sempre andata ben al di là del lungo scontro con Roma. Il filosofo Jean-Francois Lyotard in un piccolo libricino dedicato alla identità italiana ed agli italiani ha scritto riferendosi agli antichi Romani: “In Occidente hanno inventato l’Impero, cioè la politica più romantica, la sola”. Romanticismo politico, avevano, prima di Lyotard, scritto molti poeti, scrittori e filosofi riferendosi all’antica Roma, al suo Impero ed al millennio del suo dominio sul mondo allora conosciuto. Giudizio parziale e sorprendente per uno come Lyotard, se non altro perché è il giudizio di un grande filosofo contemporaneo nato nello stesso Paese del gallo Asterix. Giudizio ingiusto. Romanticismo politico è anche quello, forse soprattutto quello, di chi si oppose strenuamente a Roma su queste montagne inaccessibili e ghiacciate. Impero come paradigma del romanticismo politico e finisce tutto lì. Forse, Lyotard non sapeva che il giorno 1° di novembre dell’anno 82 a.C. un esercito proveniente da sud e comandato dai capi degli eserciti sanniti e lucani (questi ultimi guidati da Marco Lamponio) era quasi sul punto di compiere una impresa militare memorabile, che avrebbe cambiato la storia della penisola italiana e del mondo allora conosciuto; la conquista o, forse, la distruzione di Roma. Una impresa memorabile e non meno romantica di quelle imprese sulle quali intellettuali italiani e stranieri hanno ricamato per costruire il mito di Roma, soprattutto della Roma imperiale. Sono storie remote che furono raccontate con dovizia di particolari anche dai nostri storici locali, tra cui il Racioppi (ne parlò nel suo libro ‘Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata’, cfr. il primo dei due libri da pagina 296 a seguire). Poi, venne il tempo della completa romanizzazione e Potentia ebbe per secoli, come già detto poc’anzi citando il Viggiano, tanti magistrati, edili, questori di origine romana, ma non solo romana. Di questi magistrati e reggitori della cosa pubblica (della Res Publica Potentinorum), diversi nomi si sono salvati e sono giunti fino a noi, come quell’Helvius Marcus Verulanus, nato a Potenza. Secoli dopo, a metà del 1200, fu lotta di resistenza e fu romanticismo politico anche la rivolta meridionale contro gli occupanti angioini, quella rivolta che, partita proprio da Potenza e capeggiata dai nobili potentini di fede ghibellina, si estese a molte province meridionali. Potenza (e le città meridionali che la seguirono) si mise contro le soverchianti forze angioine, sostenute, oltretutto, dal Papato romano, e lo fece per difendere la causa ormai perduta, o quasi, di un biondo giovinetto tedesco; Corradino di Svevia. Non è romanticismo politico anche questo? Dopo la sconfitta, il vincitore Carlo d’Angiò inflisse una feroce devastazione alla città. A Potenza, quartier generale della rivolta meridionale contro la Casa d’Angiò, toccò la sorte peggiore rispetto a tutte le altre città e terre meridionali. Fu messa ferro e fuoco dalle truppe di Carlo d’Angiò. Le sue mura abbattute. Rovina e morte dappertutto. Come se questa tragedia non fosse stato ancora un peso così atroce per una città martoriata, la città rasa al suolo dovette, da lì a poco, sopportare anche un devastante terremoto. Molte città non si sarebbero mai più riprese. Molti borghi nel Medioevo furono abbandonati per molto meno. Potenza sembrava morta, spacciata, finita per sempre. E, invece, Potenza mostrò ed onorò, forse imprevedibilmente, anche in quella circostanza tragica, il senso profondo del suo nome. Si rimise pian piano in piedi e, poco dopo, fu lo stesso, spietato, Carlo d’Angiò a capire l’importanza storica della sua sopravvivenza, permettendo ai potentini superstiti di potersi riprendere e ricostruirsi per mezzo del richiamo in città, o in quel poco che ne rimaneva, dei  fuoriusciti in fuga ed allo sbando, che si erano rifugiati e dispersi per tutta la regione e per il Sud. Questo fil rouge riemergerà in modo carsico, ancora una volta, sei secoli dopo, quando, in varie occasioni, la città resistette agli assalti dei briganti. Anche in quel periodo i terremoti la martoriarono senza darle tregua. E, tornando al piano storico-politico, non fu resistenza anche quella attuata e portata con successo a termine dai potentini contro i Borboni, che avevano riempito le galere con i resistenti, con i patrioti liberali di Potenza? Romantica e disperata e, quindi, tragica fu pure la resistenza di Potenza e, in modo particolare, del colonnello Giovanni Faccin e dei suoi ufficiali e fanti della Caserma Lucania, sede della VII Armata dell’Esercito italiano, verso la fine del secondo conflitto mondiale, esattamente nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre del 1943, quando la RAF inglese e le ‘Fortezze Volanti” (i B17 ed i B24) dell’aviazione militare americana presero di mira Potenza, pur avendo l’Italia appena firmato l’armistizio a Cassibile. In quello che, forse, fu nella storia italiana della seconda guerra mondiale uno dei bombardamenti più inutili e vili, Potenza perse 187 dei suoi figli ed il colonnello friulano Faccin, non riuscendo a resistere ulteriormente ai nemici, stretto come era tra due fuochi, quello angloamericano dal cielo e quello delle truppe tedesche a terra, si suicidò nella galleria del rione di Santa Maria (il rione della Caserma). Tante volte data per spacciata, altrettante volte Potenza è riemersa dalle sue ceneri; come l’Araba Fenice. Si rialzò subito anche quella volta. Dopo i bombardamenti e dopo la fine del secondo conflitto mondiale, la città conobbe il suo più impetuoso periodo di sviluppo e di espansione. Ma, ancora una volta, la sera del 23 novembre 1980, Potenza dovette fermarsi, contare i suoi morti, interrompere il suo sviluppo e la sua vita normale e lottare per la mera sopravvivenza. Ancora una volta, dopo un terremoto si vedeva solo desolazione. Nei giorni immediatamente successivi al 23 novembre, quando di sera e di notte, sotto la neve, Via Pretoria veniva percorsa solo da un paio di coraggiosi in un clima glaciale e spettrale, per Potenza sembrava finita. Per l’ennesima volta.

 

 IL ROMANTICISMO DELLA NATURA E DELLA RESISTENZA ALLA NATURA

 

A Potenza si combatte da circa ventiquattro secoli una battaglia per la sopravvivenza. Dall’inizio, da circa 24 secoli ad oggi, è in scena in questa città una lotta senza fine, una guerra di resistenza ancora più romantica ed impari; quella contro la forza brutale e devastatrice della natura, dei terremoti, essendo da sempre Potenza una delle città italiane più martoriate dai terremoti. Questa lotta senza fine ne ha forgiato l’identità collettiva, l’identità di questa città. Una sfida contro la logica e contro la razionalità oggettiva, al tempo stesso. Una sfida alla natura e finanche al buon senso, finanche alla razionalità strumentale ed alla ragione è stata quella di aver voluto fondare una città su questi monti freddi, spesso gelidi ed isolati, con una orografia quasi impossibile e, quel che è peggio, su un terreno tra i più sismici d’Italia e, quindi, d’Europa. Una pazzia, quasi. E se pazzia fu quella di costruirla e fondarla in un contesto naturale così difficile, quasi proibitivo, ciò che spinse i potentini per quasi ventiquattro secoli a rimanervi, a ricominciare sempre da capo come si può chiamare? Se non pazzia, allora sfida romantica alla ragione. Da questo punto di vista, e tornando a Lyotard, mi viene in aiuto una frase che il caposcuola della filosofia postmodernista (Jean-Francois Lyotard, ‘La pittura del segreto nell’epoca postmoderna, Baruchello’, Feltrinelli, Milano, 1982) ha scritto per l’Italia, ma che sembra pensata apposta per Potenza: “Non è, non è soltanto, la terra a tremare qui: è la ragione. Dalla sua agitazione che dovrebbe ingenerare la rovina, risulta invece una edificazione”. A chi si riferisce l’illustre filosofo parigino; alla terra o alla ragione? Quale delle due trema? Un dubbio interpretativo che, forse, può valere per l’Italia, ma che non vale per Potenza, che è inutile porsi se si pensa a Potenza. A Potenza tremano tutte e due. Non solo; alle continue rovine dei terremoti, i potentini hanno reagito sempre con una nuova edificazione. Trema la ragione perché aver voluto proseguire la vita di questa città contro tutto e contro tutti per ventiquattro secoli, portando sempre avanti questo nome, Potentia e poi Potenza, è stata una sfida tale da far tremare la ragione. Una sfida alla Natura, che è anche una sfida alla Ragione. Senz’altro, al principio di razionalità. Romanticismo politico quello della sua resistenza al dominio. Romanticismo esistenziale quello della sua incredibile forza (potentia) di resistenza alle avversità della natura, romanticismo estetico quello del suo paesaggio esteriore ed interiore, dove per interiore intendo il paesaggio dell’anima insito nell’immaginario e nell’inconscio più profondo, spesso inconsapevole dei potentini, e che si integra in quello naturale. Un potentino che ha rinunciato ad una brillante carriera nelle Università della California per resistere romanticamente insieme alla sua città e per aiutarla, l’ingegner Maurizio Leggeri, ci fornisce due dati molto interessanti sui terremoti e sulla sismicità di Potenza; il primo dato è che l’area di Potenza, purtroppo, si trova all’incrocio di tre faglie ed il secondo è che, dall’anno 989 d.C. ad oggi, a Potenza sono stati avvertiti ben 30 terremoti. Prima del 989 d.C. non ci sono dati e documenti, ma, siccome la logica della natura è indifferente a quella della storia umana, se parlassimo di 60 terremoti circa durante tutta la più che bimillenaria storia della città non si sbaglierebbe poi di molto! Due millenni e quattro secoli circa passati a resistere contro tutto e tutti; circa una sessantina di terremoti nella storia della città (molti dei quali devastanti e fortemente distruttivi), un continuo leccarsi le ferite, un ininterrotto, o quasi, ricominciare tutto da capo, un ininterrotto riprendersi dai traumi ed un continuo ricostruire per poi ricominciare ogni volta sempre di nuovo. Forse, non c’è nessuna città in Italia che abbia subito tanto e, molto probabilmente, non c’è nessuna città italiana che sia stata così forte e caparbia da ricostruire ogni volta e presto, che sia stata capace di resistere a così tanti fattori ostili e di espandersi continuamente. Nonostante tutto. Potenza; nomen omen. Quale nome più indicato e preveggente, se non quello di Potentia, la città che sta in alto, la città forte, la città potente? Però, se da un lato, la natura è stata così dura con Potenza, soprattutto per i terremoti, ma anche per il freddo e per l’orografia con un terreno molto difficile per l’agricoltura e per costruire, dall’altro, ha dotato questa città di un meraviglioso sfondo naturale. E non solo di un bellissimo paesaggio, ma anche di una posizione strategica. “La centralità di Potenza – scrive il prof. Marcello Schiattarella, geologo all’Unibas di Potenza – sta nella sua posizione geografica privilegiata nel mezzo di una importante via di comunicazione tra versante tirrenico e settore ionico. Potenza è cerniera geomorfologica dell’intera regione lucana e attorno al capoluogo ruota una variegata realtà di paesaggi e scenari naturali”. La bellezza del paesaggio naturale di Potenza è stata rilevata da diversi autori nel corso di diverse epoche. L’abate Giovan Battista Pacichelli nel 1703 scriveva: “E’ di clima sì freddo che obliga al focolare nel fervor della State” (Fa così freddo che bisogna stare vicino al fuoco per riscaldarsi anche nel pieno dell’estate). Ma, freddo o non freddo, “diletta nondimeno alla vista per le vaghissime lontananze che dimostrano Terre, Fiumi, Boschi, Monasteri ed altro che somministrar può la Natura di gradevole in concorso con l’Arte”. Pacichelli tratteggiava per Potenza quello che nel secolo successivo si cominciò a definire come un tipico paesaggio romantico (il concetto di romanticismo estetico verrà messo in forma solo a partire dai primi del secolo successivo, il 1800, in area nordica inglese-tedesca, come è noto). Particolare di non secondaria importanza a questo riguardo, questo quadro romantico ricorre, tra i circa venti centri più importanti della regione di cui Pacichelli traccia una descrizione, solo nel caso di Potenza. La descrizione dell’abate Pacichelli ricalcava esattamente, a distanza di qualche secolo, la descrizione del letterato Eustachio da Matera (o da Venosa) nel 1270.

“Urbs est Lucanis girata Potentia lucis, fulta patrociniis sancte Girarde tuis,

montibus et pratis. Gregis feraces, et lini late predita cultat agros.

“La città di Potenza fu generata dai boschi lucani, e sostenuta dalla tua protezione, o San Gerardo. Fornita di monti e di prati a perdita d’occhio coltiva campi fecondi di greggi ed armenti”.

Eustachio da Matera (Planctus Italiae).

Potenza, ricca di acque e fiumi, di verde (è la seconda città più green d’Italia dopo Trento, la più verde dell’Italia meridionale), boschi e selve battuti dai venti (freddi e, a volte, gelidi venti di tramontana); è la città senz’altro meno solare e mediterranea del Sud e (anche) dal punto di vista della natura, del clima e del paesaggio naturale la più romantica, che è un modo diverso di dire la più nordica. La sua parte moderna, frutto della grande espansione edilizia del secondo dopoguerra, non ha mutato sostanzialmente, per quanto impetuosa sia stata l’espansione, questa immagine impressa da sempre nell’animo dei potentini e di chi, pur non essendo potentino, la conosce. Saltando la parte moderna e periferica della città (ma neanche tutta, a dire il vero, si pensi a quanti elementi di fascino e bellezza contiene il quartiere di Santa Maria, prima periferia ed antico casale a nord del centro storico già al tempo delle Crociate), che, come tutte le periferie moderne di tutte le città, non richiama, di certo, suggestioni estetiche particolari o particolarmente affascinanti (ma, da altri punti di vista, la periferia di Potenza esercita un diverso ed altro tipo di attrazione col suo skyline moderno e vagamente newyorkese, come fece notare Pasolini), questo naturale romanticismo estetico si salda in una immagine ancor più piena e caratteristica della città con le sue vestigia romane, che sopravvivono anche in punti periferici della città (Villa Romana di Via Parigi, Ponte Romano sul Basento), per non dire dei luoghi romantici appena fuori i confini amministrativi del Comune di Potenza, ma che appartengono storicamente e culturalmente a Potenza (siti archeologici di Rossano e di Serra di Vaglio, il laghetto e l’oasi naturalistica del Pantano) e si esalta con il centro storico di ‘inconfondibile aspetto medioevale’ (Fonseca); così il cerchio della teoria romantica si completa del tutto.

                                                                                             

UN AVAMPOSTO DEL NORD AL CENTRO DEL SUD

 

Il Nord fa costantemente capolino nella sua storia e nella sua identità. Il suo paesaggio naturale si riflette nell’altro paesaggio; il paesaggio dell’anima. La ‘stranezza’ e la particolarità di Potenza sono alimentate anche da un mélange tra elementi meridionali ed elementi nordici. Ovviamente, non tutti ne sono consapevoli. Quanto detto prima a proposito del paesaggio naturale dovrebbe portare già i più avveduti su questa inconsueta, ma realistica traccia. L’idea che da tanto tempo coltivo circa i potentini, sicuramente su quelli più autoconsapevoli, è che non sentono di avere uno spiccato profilo meridionale e mediterraneo. Mi sembra che anche chi visita la città venendo da fuori si accorga facilmente di questo dato. Anzi, per certi versi, i potentini non la sentono proprio questa anima meridionale e ne sentono, invece, un’Altra, del tutto differente. Molto spesso, i potentini sentono come propria, poche volte coscientemente e più spesso in modo inconsapevole, la parte più segreta del genius loci; l’Altra. L’Altra parte dell’identità cittadina, la parte nordica, è presente dappertutto nella storia oltre che nella natura della città e, quindi, nel paesaggio dell’anima dei suoi figli, non necessariamente dei suoi abitanti, dei suoi residenti, ma dei suoi figli sì. Inaugurando qui quello che potrebbe essere uno degli slogan turistici cittadini, si potrebbe anche definire Potenza come un pezzo di Nord al Centro del Sud; tra le sue non poche particolarità e caratteristiche peculiari, Potenza ha anche quella di essere il baricentro del Sud. Circondata da tutte le parti dal Sud e dalla cultura meridionale, Potenza è meridionale sotto certi aspetti, ma non è affatto mediterranea e non è affatto meridionale sotto molti altri aspetti, che sono aspetti non meno essenziali. Tra i suoi tratti più meridionali, Potenza ha il suo rinomato brand culinario ‘cucina potentina’, nel quale spicca per eccellenza il ragù alla potentina, che compete solo con i due altri notissimi ragù italiani, il bolognese ed il napoletano, ma la contraddizione meridionale/nordico si presenta a Potenza finanche nel suo grande e secolare momento identitario costituito dalla ‘Storica Parata dei Turchi’, che va in scena (è proprio il caso di dirlo, viste le sue 1400 comparse, in abiti di varie epoche storiche differenti) il 29 maggio di ogni anno. Un forestiero che scarichi da Youtube l’edizione del 2013 della ‘Storica Parata dei Turchi’ non potrà non rimanere stupefatto dal contrasto, anche all’interno della stessa Parata (Patrimonio d’Italia per la Tradizione), tra tratti tipicamente meridionali (ad esempio, la cerimonia della Iaccara) ed elementi tipicamente nordici (le nobildonne potentine del 1500 che, con solenne ed austero contegno, sfilano intonando una celeberrima aria appartenente alla tradizione del folk inglese; Greensleeves). Nel profondo del suo inconscio collettivo, la città, vive una classica situazione di tipo gnostico; imprigionata nel suo corpo meridionale, spesso non sentito veramente come proprio (almeno, non fino in fondo) e dal quale pure è fortemente condizionata in vari e molteplici aspetti essendo, in ogni caso, il suo contenitore geofisico e culturale, nell’animo segreto di una buona parte dei suoi figli, sicuramente in molti momenti caratterizzanti profondamente l’identità cittadina e la sua storia, Potenza ha guardato verso nord. Tutti i momenti  salienti della sua storia, ed è facile immaginare quanto la storia determini fortemente, se non viene dimenticata, l’identità di una città, sono venuti da nord. Mi è sempre sembrato di avvertire un non-detto nei discorsi tra potentini, qualcosa di profondo ed indefinibile consistente nella sensazione che neanche la lingua orale e la sua stratificazione identitaria più remota e profonda, cioè il dialetto, sia capace di esprimere fino in fondo i moti più profondi e impalpabili dell’animo collettivo di questa città. Detta in altre parole, è come se ci fosse una lingua che non è quella scritta (l’italiano) e nemmeno quella orale (né la lingua italiana, ma neppure il dialetto), ma una lingua dell’anima di questa città, che si raccorda perfettamente al suo romantico paesaggio naturale costituito da boschi, da scenari  rarefatti plasmati  da un clima freddo che mette il corpo a dura prova, da paesaggi innevati per lungo tempo d’inverno (spesso), da aria e cieli tersi, da luci solari pallide, da cieli spesso coperti e grigi, da tramonti e climi particolarmente crepuscolari, da corsi d’acqua, da un centro medioevale, da un Ponte Romano su un fiume. In altri termini, una lingua interiore dell’anima fortemente determinata da un paesaggio naturale descritto perfettamente già secoli fa dal Pachichelli e da Eustachio da Matera (ma anche da altri con descrizioni che concordano tutte perfettamente l’una con l’altra) e che non si esprime nella sua più pura autenticità neanche nel dialetto. D’altronde, finanche lo stesso dialetto di Potenza è qualcosa che si pone abbastanza fuori dagli schemi glottologici meridionali. Ci sono ponderosi studi portati avanti dal filologo tedesco Gerhard Rohlfs, che individuò un quadrilatero linguistico definito ‘quadrilatero galloitalico’ potentino composto dalla città di Potenza e dai paesi immediatamente confinanti di Tito, Picerno e Pignola. Ciò che il filologo tedesco intuì, oggi è dottrina riconosciuta scientificamente nell’ambito degli studi di glottologia. Percorrendo in treno per la prima volta la regione lucana, o Basilicata, il glottologo berlinese ebbe una intuizione felice e fortunata di cui poi scrisse anni dopo. In un suo articolo del 1931, che è, ancora oggi, pietra miliare dell’indagine linguistica in Basilicata, Rohlfs così racconta il primo incontro con le parlate di quest’area: “… Il viaggiatore che, in uno scompartimento di terza classe nel tragitto da Napoli a Taranto, presti attenzione alla conversazione dei contadini che salgono ad ogni stazione, si renderà subito conto che nel primo tratto – se si trascurano variazioni nell’intonazione e differenze locali minime – la base linguistica è sorprendentemente unitaria. Ma subito dopo la profonda valle del Platano, dalla stazione di Picerno in poi, il quadro cambia. Improvvisamente arrivano all’orecchio del viaggiatore forme foniche che non si adattano assolutamente alla situazione osservata fino a quel momento … E così si continua anche dopo che il treno ha superato le stazioni di Tito e Potenza. Soltanto a partire da Trivigno queste caratteristiche scompaiono e, mentre il treno tra le brulle e selvagge montagne della valle del Basento si dirige verso il golfo di Taranto, ricompare improvvisamente la situazione linguistica che, appena due ore prima, era scomparsa così improvvisamente e in modo così inspiegabile …”. Si tratta di caratteristiche molto nordiche, in questo caso, specificamente settentrionali, di una parte specifica dell’Italia settentrionale (Monferrato in Piemonte ed aree liguri). Si pensa che in un certo momento del Medioevo (presumibilmente tra il 1100 ed il 1200, ma forse anche prima) coloni provenienti da quelle aree si siano trapiantati in questo quadrilatero potentino per sfuggire a persecuzioni religiose o per altri motivi da indagare più a fondo, dando così una caratterizzazione che si espanse a tutti gli aspetti della vita della comunità potentina. Occorre precisare che se la matrice linguistica gallo-italica è un fatto ormai indiscusso, meno certe sono le prove storiografiche di quella non esigua immigrazione di coloni piemontesi e liguri a Potenza. La storiografia finora è stata avara di documentazione. Eppure, forse, una prova di questa inusuale immigrazione di un notevole numero di coloni piemontesi e liguri nel pieno del Medioevo potentino esiste. Da molto tempo. Ho già parlato di Eustachio da Matera, letterato del 1200, che, molto probabilmente, fu testimone diretto della distruzione di Potenza attuata dall’esercito angioino. Ho già citato dei versi del poeta riguardanti l’aspetto fisico della città nel 1270. Ma c’è un altro passaggio molto interessante di Eustachio, un passaggio davvero molto strano se non lo si connette all’ipotesi appena illustrata. Si tratta del seguente versetto:

Lonbardis populis austera potensque colonis

Prestat vicinis diviciosa suis.

Austera di stirpe lombarda e potente di coloni

rifulge più ricca dei suoi vicini.

Stirpe lombarda? Evidentemente per quantità e per qualità del trapianto di popolazione, Potenza doveva sembrare ad Eustachio una città dal profilo nordico o, quanto meno, una città che oggi definiremmo con caratteri nordici. A quel tempo, per lombardi non si intendevano solo gli abitanti della attuale regione Lombardia in senso stretto, ma anche abitanti di altre zone del Nord Italia tra cui anche piemontesi del Monferrato e liguri dell’entroterra (confinante col Piemonte), che rientrano in pieno nella definizione generica di ‘Lonbardis populis’. Alcuni studiosi di storia della letteratura italiana hanno scritto, non saprei onestamente dire con quale fondamento, che i versi del ‘Planctus Italiae’ di Eustachio dedicati agli eccidi angioini di Potenza, alla sua distruzione ed alla guerra civile che si scatenò in città tra la parte ghibellina dei nobili e la parte popolare, “sono i più antichi, nella letteratura romanza, in cui si trovi riferimento a fatti storici ed è quantomeno singolare che riguardino una città rimasta a lungo periferica rispetto alle grande linee storiografiche” (Maria Teresa Imbriani) . Anche da questi particolari bisogna necessariamente dedurre il fatto che Eustachio conoscesse benissimo la situazione di Potenza del 1250-1270 e che, quindi, non poteva certo essersi inventato il fatto delle popolazioni settentrionali che si erano trapiantate a Potenza e che, addirittura, le davano, in pieno medioevo, un carattere lombardo (o piemontese-ligure) così forte. Infine, ci sarebbe quell’aggettivo ‘austera’. In molte descrizioni odierne leggo questo aggettivo in modo abbastanza ricorrente. Austera, si sposa con sobria, con riservata, con rigida. Potenza è senz’altro tutte queste cose; rigido è il suo clima. Sobrie e sobriamente eleganti sono le linee dei suoi palazzi, le linee architettoniche ed i colori di questi palazzi e delle sue chiese. Le sue antiche costruzioni non hanno tanto l’aspetto di molti altri posti del Sud. Riservato è il carattere. Riservato, fino al punto di sembrare freddo, come il suo clima. Ho fatto un esperimento a tale riguardo. Ho inserito nel motore di ricerca di Google la seguente dicitura ‘Città austera e fredda’; nelle prime pagine di ricerca sono uscite le città di Torino, Cuneo, Aosta, Trieste, Vienna, Mosca; tutte città europee e nordiche e poi, sole eccezioni meridionali, Potenza e Benevento (e, non a caso, sostengo da tempo che Benevento è l’unica città meridionale che assomiglia a Potenza, sebbene Benevento non sia situata molto in alto). Potenza città austera, fredda, sobria, riservata, discreta, elegante, di bellezza notturna, romantica (in riferimento al paesaggio naturale ed anche di tanti sui scorci). Una città di austera ed antica eleganza, costruita, nel suo cuore antico, con la pietra di fiume. Una piazza principale, Piazza Prefettura, austeramente ottocentesca ed elegante, col suo Teatro, con i suoi portici, con il suo imponente Palazzo del Governo in stile neoclassico e con un accenno di stile imperiale napoleonico. Potenza cova con riserbo gelosissimo il suo segreto orgoglio di essere, sotto non pochi aspetti, un avamposto del Nord al Centro del Sud.  

TRA ANTICO E MODERNO

L’ininterrotta lotta di resistenza contro la natura avversa ha infuso nel dna dei potentini la proiezione verso il futuro, verso la speranza. Il futuro è stato visto sempre come il riparatore della durezza del presente e, mentre tutti i presenti diventavano man mano passato, l’ansia di ricominciare ha creato nei potentini una potentissima e naturale disposizione verso il futuro e, quindi, verso la modernità. Nello stesso tempo, come tutti coloro che hanno dovuto abbandonare le proprie case ed accettare la caducità delle tracce del proprio passato, spazzate via dalla brutalità delle calamità naturali e storiche, i potentini non vogliono proprio saperne  di abbracciare un modernismo fine a se stesso. Ecco perché, nel corso dei secoli, i potentini hanno sviluppato un sentimento che potrebbe anche sembrare molto ambiguo e contraddittorio, ma che sarebbe meglio definire come ambivalente. Ecco perché in poche città come Potenza il passato remoto convive così facilmente con una ansia autentica di modernità. Ecco perché chiunque arrivi a Potenza non potrà fare a meno di notare questa contraddittoria, ma solo apparentemente contraddittoria, compresenza di antico e moderno. Potenza è antichissima e modernissima, al tempo stesso. Il potentino non sente la nevrosi dell’aut aut, come accade in tante altre città di un Paese come l’Italia, che ha quasi tremila anni di storia e cento città. Potenza è una città che vive con la massima naturalezza gli opposti, finanche spinti fino all’estremo, del vecchio e del nuovo. Di solito, Potenza passa per essere una città moderna nel senso di solo moderna. E moderna, di certo, lo è ed anche molto. D’altronde, questa modernità di Potenza risulta molto strana, molto in controtendenza se messa a confronto con il resto di una regione, la Basilicata, che Levi ha fissato e trasmesso al mondo intero come arcaica sopravvivenza di un primordiale e semiprimitivo mondo contadino fuori dal Tempo, fuori dalla Storia, fuori dalla civiltà europea ed occidentale. Potenza, mai sfiorata dal celebre romanzo di Levi, non ha un rapporto ‘moderno’, antinomico, col suo passato nel senso che non ha un rapporto negativo cioè di negazione. Piuttosto, lo si potrebbe definire postmoderno. Tutto ciò è nel dna dei potentini. Così proiettati da tempo immemorabile verso la modernità e verso il futuro, così allergici ai riti ed alla retorica leviana, prevalenti nel resto della loro regione, i potentini non anelano al futuro ed al progresso solo come alibi per cancellare il passato. Inconsciamente, essi realizzano che passato remoto e presente moderno sono legati dalla ininterrotta catena della lotta per la sopravvivenza. Quella lotta è la pre-condizione per proseguire all’infinito quella sfida alla ragione di chi fondò la città più di duemila anni fa e che i potentini hanno sempre mantenuto nel corso dei secoli. In questa concezione, passato remoto, presente moderno e futuro sono percepiti come un flusso ininterrotto di senso, come dei ponti tra le epoche. L’emblema potentino di questa singolare condizione spirituale è, infatti, costituito proprio dai suoi due pregiati ponti che si affacciano sul Basento e che sono separati solo da poche centinaia di metri di distanza. Il Ponte Romano, il ponte Romano più importante e noto della regione, ed il ponte ultramoderno Musmeci (Musmeci Bridge),  la prima opera di architettura contemporanea italiana cui è stata riconosciuta la valenza di ‘Bene Culturale’. Il fiume Basento li collega non solo fisicamente, ma idealmente in un rapporto di continuità passato/presente, antico/moderno, di un’unica e sola storia cominciata più di duemila anni fa. Questi aspetti colpiscono il non potentino, che tende ad equivocare questa predisposizione potentina per l’etet scambiandola per una predisposizione al pastiche. A volte, il visitatore forestiero non si sbaglia; ci sono punti della città, anche del centro storico, dove la fretta e la disinvoltura delle ricostruzioni post-terremoto (ma anche delle ricostruzioni post-bombardamenti, come quelli già ricordati prima risalenti alla fine dell’ultimo conflitto mondiale) hanno determinato effettivamente degli accostamenti che sono pugni nell’occhio. Architetture o accostamenti molto arditi, diciamo così. Spesso, però, il visitatore si sbaglia e di grosso. Altre volte, i contrasti, le contraddizioni non determinano ambiguità o caos, ma ambivalenze, una predisposizione questa tipicamente postmoderna, che si sposa alla perfezione con l’altrettanto postmoderna tendenza all’eclettismo degli stili.  Al di là delle superficiali apparenze di città burocratica e grigia, la sensazione superficiale e iniziale di caos e di ecletticità costituisce il segno rivelatore di una realtà ben più complessa. Una parentesi sul grigio. Grigia, in un certo senso, Potenza lo è; se uno osserva attentamente le foto di Potenza che circolano, ad esempio, sui social network, quasi sempre non mancherà di rilevare che le foto hanno sempre, o quasi sempre, il cielo coperto e grigio, al contrario delle foto di altre città del Sud sempre col sole splendente, cocente. Questo particolare, a ben vedere però, non è affatto un gap e neppure un fattore sminuente; è proprio un elemento del fascino caratteristico della città. Potenza è una città, quindi, ben più complessa di quel che, quasi sempre, appare a prima vista. Una città che non si fa capire facilmente, che non si mostra facilmente al primo impatto. Una città fatta di contrasti e di contraddizioni inimmaginabili, ma che vengono vissuti senza drammi, cioè dando un valore positivo, e non negativo, alla compresenza dei diversi e degli opposti. Tornando alla disposizione verso il futuro, una guida turistica riporta la seguente considerazione (Puglia e Basilicata. EDT): “Considerando il numero di terremoti che nel corso dei secoli hanno scosso la città sin dalle fondamenta, distruggendone la maggior parte degli edifici medioevali e dei siti storici, rivolgersi al futuro potrebbe sembrare una buona idea”. Si tratta di una osservazione senz’altro molto interessante e che coglie un aspetto recondito dell’identità potentina, ma che, certamente, non esaurisce il mistero della sua spiccata indole futuristica. Per indagarla ancora più in profondità si potrebbe dire anche che una comunità cosciente di aver sempre sfidato la ragione/la razionalità non può permettersi di perdere nemmeno una parte di se stessa, oppure non può preferire una parte di se stessa ad un’altra, eliminando quest’ultima in quanto è ben cosciente anche del travaglio indicibile della sua sopravvivenza. In base a questa percezione, il genius loci vede i lasciti delle diverse epoche con un altro pathos; li vede come figli amati tutti in egual modo. Poco male se stanno tutti gli uni accanto agli altri anche in combinazioni inusuali. Poco male se appartengono a epoche anche molto lontane fra di loro. Ogni epoca è stata un eterno ritorno del medesimo pathos della sopravvivenza, della medesima dialettica storica distruzione/ricostruzione; salvarsi, contare le macerie, ricostruire e così via. Questo discorso rischierebbe di non essere inteso in pieno se non si procedesse anche da parte mia ad una ulteriore e nuova (e stupefacente per gli stessi potentini) rivelazione. Una rivelazione che finisce col demolire un altro dei tanti luoghi comuni invalidanti che si sono  addensati sulla città nel corso degli ultimi decenni. Al contrario della vulgata prevalsa dal secondo dopoguerra in poi, e tuttora prevalente, Potenza non è una città senza storia, senza arte, senza attrazioni, senza questo e senza quello. A dire il vero, viene proprio da ridere pensando alla naiveté con cui tali luoghi comuni si sono imposti, al ridicolo in essi contenuto. Ma così è stato. Ne prendo atto. Per questo motivo, sarà veramente uno choc per molti apprendere che Potenza, al contrario dei tanti luoghi comuni in questione, è, anzi, proprio il posto in Basilicata in cui si è presentato alla Storia il maggior numero di epoche. E sono ben cinque; antico-lucana (Rossano e Serra di Vaglio, ritrovamenti nelle contrade Barrata e Cugno delle Brecce, fattoria di Via del Gallitello) antico-romana (Ponte Romano sul Basento, Villa Romana di Via Parigi, epigrafi, sarcofago del Palazzo Vescovile, cripta della Cattedrale, materiale estratto in varie epoche dal sottosuolo e che è conservato al Museo Provinciale), medioevale-rinascimentale (chiese, porte, torri, Palazzo Loffredo, la torre del castello ecc.), ottocentesco-umbertina (Palazzo del Governo, Teatro ‘Stabile’, Caserma Lucania, Palazzo dell’ex Banco di Napoli ecc.), moderna (Musmeci Bridge, Palazzo della ex Banca Mediterranea ecc.), senza trascurare le realizzazioni del ventennio fascista (Palazzo delle Assicurazioni Ina-Generali, Grattacielo della ex Biblioteca Provinciale, Palazzo della Banca d’Italia ecc.). Chi può dire lo stesso in questa regione? Nessuno degli altri centotrenta comuni della Basilicata, contrariamente ai luoghi comuni frutto di radicata ignoranza, ha una così ricca e varia stratificazione storico-architettonica di tale qualità. Tanti stili, quindi, ma a Potenza tutti convivono senza tensioni. Assoluta convivenza/compresenza fra antico e moderno. In altre parole; eclettismo e compresenza, cioè due caratteristiche formali del pensiero postmoderno. Chissà se questa ambivalenza sarebbe piaciuta ad un Lyotard! Ma eclettismo degli stili e compresenza antico/moderno sono anche due specificità di Potenza e del comune sentire dei suoi abitanti. Questa caratteristica di Potenza viene notata da tutti coloro che vi capitano la prima volta venendo da fuori. Tutti questi stili e tutti questi lasciti di tante epoche diverse, pur nella loro varietà, hanno, però, a Potenza una base in comune, una base larga, ma comune; tutti appartengono alla tradizione ed all’immaginario della cultura europea ed occidentale. Questo per dire che questa strana e singolare città del Sud e, di conseguenza, questa strana e singolare città italiana si allontana, ed anche di molto, dall’immaginario collettivo del Sud. I potentini avvertono istintivamente questa differenza (e questo dato), ma non ne sono sempre ben coscienti. La differenza risalta, forse, più chiara agli occhi del forestiero e del turista, magari settentrionale. Non c’è mare, non ci sono case bianche, c’è poco sole e spesso è pallido, nessun influsso orientale né nell’estetica, né nella storia, né nella natura. Nessuna traccia di vera mediterraneità, nessuna simpatia per il pensiero meridiano (Franco Cassano), nessuna concessione alla retorica basilisca tanto prevalente nel resto della regione Basilicata, soprattutto nella parte materana di essa. Potenza non ha tracce greco-antiche, né bizantine, non è stata mai conquistata, a differenza di tantissime altre città e paesi della Basilicata e del Sud (ma anche liguri e piemontesi), dai saraceni (almeno finora gli storici locali non hanno mai verificato nulla di tutto ciò). Anche la dominazione spagnola l’ha toccata pochissimo, soprattutto nel 1600. Nulla è rimasto del periodo spagnolo. Per quanto riguarda invece il periodo aragonese ed il dominio spagnolo nel 1500, Potenza fu una città molto più fortunata di tante altre perché ebbe nella dinastia dei Guevara una signoria di grande statura storica, mentre sotto l’aspetto stilistico il gotico-catalano voluto dai Guevara per il convento di San Francesco conferiva alla città un’anima rinascimentale ed austera paragonabile a quella di città del centro-nord. La controprova sta nel fatto che il ridondante e molto meridionale barocco architettonico è del tutto assente a Potenza. Tutti questi tratti particolari fanno sì che Potenza risulti essere una città diciamo ‘strana’, non solo per la Basilicata e per il Sud, ma per l’Italia intera, visto che rappresenta nel ‘diverso’ contesto meridionale e lucano una eccezione di ‘diversità’. Una diversità nella diversità. Ce ne accorgiamo ancor più quando il turista che viene da Roma o dal Nord o dai Paesi europei approda a Potenza e qui da noi non capisce in che razza di città meridionale è capitato, come quel noto jazzista di Bolzano, uno dei più noti pianisti jazz italiani, che arrivò a Potenza in una freddissima serata del 30 maggio di più di 40 anni fa in maglietta con i suoi compagni del quintet confidando ciecamente nel caldo naturale del Sud e che finì col suonare all’aperto, in Piazza Prefettura, imbottito di plaid colorati tanto da sembrare un contadino messicano. Forse perché scende al Sud innamorato dei suoi climi caldi, esotici e mediterranei, ma il turista resta deluso, sicuramente molto disorientato venendo a Potenza. Ma c’è anche il caso contrario; egli arriva a Potenza con i suoi pregiudizi negativi o con un sentimento di estranea alterità verso il Sud ed allora resta colpito e sorpreso da Potenza. Questa volta, però, in senso positivo; ne resta quasi affascinato, come quegli increduli turisti di Torino che lasciarono sul portale Tripadvisor un commento significativo della ‘diversità’ potentina rispetto al resto del Sud e della stessa Basilicata (“Subito fuori, il centro di Potenza, che è una città bellissima e stranissima, che ha un sistema di scale mobili sorprendenti, che funzionano come una metropolitana. Ma che bello!”). Questa bella scoperta costituisce un dato tanto più strano e contraddittorio proprio perché Potenza è la città perfettamente baricentrica del Sud. In quanto ombelico del Sud, Potenza dovrebbe esserne l’espressione più caratteristica e tipica, la città che ne esalta al massimo le caratteristiche. Invece, non è così, anzi, è proprio il contrario di quello che logicamente molti pensano (non conoscendola) che debba essere e che sia. Potenza è una città che piace a chi venendo dal Sud o dal Nord predilige climi, tracce e landscapes non meridionali. O, al massimo, non troppo meridionali; cerca un Sud ‘diverso’. Sembra incredibile, ma è così.

LA MODERNITA’ POLITICA

Si diceva prima della resistenza al dominio, della resistenza alla natura. Sbaglierebbe, però, chi identificasse la resistenza potentina al dominio ed all’oppressione con la resistenza alla Storia. La resistenza a Potenza non è mai stata intesa come una resistenza alla Storia. Non si è mai stati in questa città al di fuori della Storia, come nella rappresentazione leviana della Lucania. La resistenza a Potenza è sempre stata, sin dai tempi più remoti, una resistenza nella Storia, non una resistenza alla Storia. I tempi della città sono sempre stati tempi storici. E tutto può significare l’identità della città fuorché resistenza alla modernità, come è accaduto, invece, in molte città dell’Italia meridionale. Potenza si è sempre distinta anche per essere una città politicamente ‘moderna’, con grandi personalità politiche, con una grande scuola politica. Nel periodo unitario, dal 1860 ad oggi, ha avuto diversi Ministri, Statisti ed uomini politici di rilievo nazionale (Ettore Ciccotti, Ascanio Branca, Paolo Cortese, Pasquale Grippo, Emilio Colombo ed altri ancora). Ma, soprattutto, ebbe nel suo ‘secolo d’oro’ (1790-1890) fior di cospiratori, agitatori politici, rivoluzionari; giacobini, carbonari, liberali, successivamente diventati patrioti con a carico un cumulo enorme di condanne penali ed infine dirigenti del nuovo Stato italiano. Un numero rilevante per quantità. E rilevante anche per qualità. Città, politicamente parlando, borghese e liberal-progressista, al punto tale che in un Sud accerchiato da forze sanfediste, in un Sud filo-spagnolo e filo-borbonico, Potenza ha rappresentato sempre l’Altro, la modernità, le istanze liberali, il vento della Storia europea che soffiava proveniente da nord. Erano già progressiste per i canoni del tempo le sensibilità ghibelline del 1200 potentino. Allora finì male. Molto male. A nulla servì il tradimento ai danni dei nobili ghibellini potentini (tra cui c’erano amici personali dell’Imperatore Federico II, come, ad esempio, Messer Bartolomeo della Castagna), propiziato dalla paura del popolo per la vendetta dell’Angioino, vendetta che arrivò puntuale rendendo vana la ribellione del popolo contro il partito ghibellino potentino. Scrisse il Viggiano: “… ebbero i Potentini per Federico tanta pendenza che per poco non trassero seco appresso il loro totale sterminio”. Ma, alla fine del 1700, Potenza fu, dicono alcuni storici, il principale centro giacobino, dopo Napoli, all’interno del regno napoletano. E, forse, quegli storici non sbagliano affatto. La Repubblica giacobina di Potenza ebbe la partecipazione e l’appoggio della figura più significativa del clero filo-giacobino, non solo a livello lucano e del Mezzogiorno, ma credo si possa dire addirittura a livello italiano: Giovanni Andrea Serrao, vescovo della città. Il ruolo culturale e politico avuto alla fine del 1700 dal vescovo giansenista e giacobino di Potenza, Serrao, fu unico e questa figura di intellettuale, di prelato e di rivoluzionario giacobino non credo trovi altri esempi in tutta Italia. E che dire dei tanti sacerdoti, sia quelli che durante le tragiche giornate della Repubblica giacobina, sia quelli che nei decenni successivi prepararono il 18 Agosto 1860 (l’evento storico con cui il popolo potentino cacciò, prima città nel Sud continentale, il presidio borbonico)? Divennero agenti attivi della lotta prima a favore della Repubblica giacobina potentina e, successivamente, a favore della rivolta antiborbonica e dell’Unità d’Italia. Infatti, una via dedicata ai Sacerdoti Liberali c’è solo a Potenza in tutt’Italia. Questa città aveva già consolidato una fortissima tradizione di cattolicesimo liberale, coesistente con il programma rivoluzionario giacobino, quando, ancora nel 1868, a Roma lo Stato Pontificio, attraverso il boia Mastro Titta, ‘giustiziava’ barbaramente i giovani patrioti Monti e Tognetti. In ogni caso, prima che il Cardinale Ruffo stroncasse il giacobinismo nell’ex regno napoletano, a Potenza il partito rivoluzionario vendicò l’assassinio del ‘suo’ vescovo Serrao. Non a caso, Giacomo Racioppi scrisse: ”I caduti del 1799 risorsero vincitori il 1806”.  Quell’anno, Potenza divenne il nuovo capoluogo della Provincia di Basilicata grazie ai francesi di Napoleone. Lo divenne certamente per la sua posizione più vicina a Napoli, ma anche per la sua spiccata sensibilità ai venti illuministici, giacobini,  progressisti. Un caso unico, sicuramente molto raro, nel Mezzogiorno d’Italia, un caso consacrato, decenni dopo, dal conferimento della medaglia d’Oro al Risorgimento, unico caso nel Sud continentale. L’importanza storica di Potenza si confermò, ancora una volta, anche dopo il 18 agosto 1860, ed esattamente in una giornata poco considerata dagli storici; la notte del 16 novembre 1861. In quel giorno, il brigante Crocco e lo spagnolo Borjes, i capi più prestigiosi della vasta onda brigantesca dell’Italia meridionale, si presentarono con un esercito di 1400 elementi (il più grande esercito di briganti mai messo in campo) in prossimità dei bastioni di Potenza per sferrare l’assalto alla città. La conquista di Potenza era il più grande obiettivo politico sognato dal brigantaggio post-unitario. La città quel giorno era un enorme presidio militare, una grande piazza d’armi comandata dal governatore piemontese Giulio De Rolland, dal generale piemontese Chabet (più francesi che piemontesi sia il De Rolland che lo Chabet, visto che parlavano in francese) e dal generale Della Chiesa. Inoltre, pronti a respingere l’assalto dei briganti, vi era la Cavalleria Ungherese, i bersaglieri, i granatieri, la Guardia Nazionale, reparti di fanteria, forze di polizia, i carabinieri. “L’assalto al capoluogo – ha scritto lo storico materano Raffaele Giura Longo – fu scongiurato, perché tutta la popolazione in forma unitaria si era mobilitata senza distinzione di ceti, con tutti i suoi sacerdoti, i suoi professionisti, gli artigiani ed i popolani, rispondendo spontaneamente all’appello del De Rolland e dell’Amministrazione Comunale, ma anche perché il forte presidio militare aveva scoraggiato le schiere brigantesche; era bastato che il generale Chabet, dopo aver piazzato i cannoni di San Carlo ed aver disposto le truppe in vari altri punti strategici della città, inviasse un drappello di 200 uomini a cavallo a volteggiare sui Piani del Mattino per determinare una sorta di  ritirata preventiva delle schiere di Crocco e di Borjes, che ripiegarono su Pietragalla e poi nei boschi del Vulture”. Mi sono chiesto tante volte se la storiografia risorgimentale nazionale non abbia sottovalutato quel fatto della notte del 16 novembre 1861 a Potenza, quella resistenza corale del popolo potentino contro i briganti. L’importanza di quella notte si capisce non ricordando solo ciò che accadde, ma riflettendo su cosa sarebbe accaduto se i briganti avessero deciso di attaccare lo stesso e se, per pura ipotesi, fossero riusciti a conquistare il quartiere generale sabaudo della Basilicata. Va sempre tenuto ben a mente che la Basilicata era la regione dove il fenomeno brigantesco si presentò nelle sue forme più acute e pericolose per il nuovo ordine unitario. Quanto era importante per Crocco e per Borjes prendere Potenza? Preferisco far parlare un noto sito di nostalgismo neoborbonico: L’amara vicenda determinò, in chi comprendeva l’importanza di Potenza, come il Borjés, un tremendo sconforto per la consapevolezza di aver perso l’unica occasione veramente utile per vincere. Non occorreva essere grandi strateghi per capire che, se l’affondo su Potenza fosse stato sferrato al momento opportuno e nei termini del progetto lungamente predisposto, difficilmente i Savoia sarebbero sfuggiti ad una disfatta che avrebbe posto serie ipoteche sul loro regno. Essi vinsero, invece, quando stavano proprio per perdere. Fallita, o meglio non conquistata, Potenza, anche l’impresa del Borjés ebbe tragicamente termine dopo poco. Il generale spagnolo, non potendo sopportare oltre quello che, a ragione, riteneva un tradimento decise di abbandonare il Crocco e le terre di Lucania per dirigersi verso gli Abruzzi ove tentare l’impresa di varcare il confine con lo stato pontificio. Con ogni probabilità, il suo gesto non era teso a rinunciare definitivamente alla lotta ma solo a portare, e questo forse gli costò la vita, a diretta conoscenza del Re le incongruenze del brigante. Intercettato ad un passo dal confine, presso Tagliacozzo, con precisione sospetta (qualcuno è evidente lo tradì) venne, senza alcun processo fucilato, con i suoi uomini, dai piemontesi al comando del maggiore Franchini”. Se aggiungiamo alle analisi di parte borbonica, quelle che si facevano in quel periodo terribile in alcuni circoli torinesi e piemontesi (penso, per esempio, alle posizioni rinunciatarie di Massimo D’Azeglio) si può ben ipotizzare, con buone probabilità, che la caduta di Potenza avrebbe determinato il crollo dello Stato unitario sabaudo al Sud e, quindi, la rinuncia alle terre del Sud da parte dei Savoia, e, quindi ancora, la rapida fine della appena raggiunta Unità d’Italia? Purtroppo, o per fortuna, la Storia non ammette controprove, ma chi scrive trova più che ragionevole e più che probabile pensare ad una risposta affermativa. Se così fosse, l’Italia dovrebbe essere molto grata a Potenza per il suo fortissimo sentimento unitario e per il suo spirito di resistenza (e non solo, quindi, per i fatti del 18 agosto 1860). Se così fosse, ma nessuno può provarlo, l’importanza di Potenza nella storia, non solo della sua regione e del Mezzogiorno, ma nella Storia d’Italia sarebbe semplicemente inimmaginabile. E’ un po’ lo stesso destino dei portieri di una squadra di calcio. Se fanno quattro parate strepitose e salvano la partita, il giorno dopo tutti hanno già dimenticato le loro prodezze. Se, invece, si fanno trafiggere ‘da polli’ per quattro volte fanno storia e tutti ricorderanno quel record negativo per tutta la vita. Sic transit gloria mundi … Di quel Secolo d’Oro potentino ci sono ancora tanti altri fatti storici poco noti che andrebbero riscoperti. Tanti altri fatti storici importanti potrebbero essere chiamati in causa per confermare l’importanza che ebbe Potenza per la causa illuministica, giacobina, liberale, risorgimentale, unitaria e progressista nel Mezzogiorno d’Italia e, in via più mediata, anche d’Italia. In altre parole, per confermare la sua forte predisposizione alla modernità, anche nella sua versione politica. La sua predisposizione ben netta alla modernità politica.

ANCORA IL NORD …

Ho avuto già modo di dire che molti, se non tutti, dei suoi momenti salienti, di quelli che fanno la storia e ne influenzano la trama identitaria, sono arrivati a Potenza da nord. Potenza ha impresso una traccia storica rilevante ogni volta che ha recepito i fermenti che si agitavano a nord. Ho già detto della scarsità o della totale assenza di tracce storiche e delle testimonianze dei popoli del bacino mediterraneo, ho già detto delle immigrazioni di popolazioni piemontesi e liguri nel Medioevo, ho appena detto della modernità politica di una città, apparentemente periferica, ma dalla forte fibra progressista. L’anima e la storia religiosa di Potenza si riflettono nel culto di San Gerardo, il vescovo che nel 1111 arrivò da Piacenza. Nella storia più recente della città non mancano nemmeno cognomi inglesi, anche se trapiantati a Napoli (Winspeare, l’intendente che costruì Piazza Prefettura, e Woodcock, che ha costruito per Potenza una fama di Procura giustiziera contro il potere corrotto nazionale, che si è riflessa sull’intera città). Del legame con la casa piemontese sabauda ha riferito lo storico Giura Longo. Ma il legame storico più forte Potenza ce l’ha con la Francia. Nel 1149, tredici anni dopo aver ospitato il Papa Innocenzo II e l’Imperatore Lotario, a Potenza si trattennero per un bel po’ di tempo, Re Ruggero e Luigi VII, Re di Francia con la moglie Eleonora d’Aquitania reduci dalla sfortunata spedizione della Seconda Crociata. “In così breve tempo – scrisse Emanuele Viggiano – i Potentini ebbero presso di loro i primi personaggi d’Europa”, le personalità politiche più importanti dell’Europa della prima metà del 1100.  Francese era il Duca di Nemours, che nel 1502 si trattenne per diversi giorni a Potenza, la sede prescelta per quella che avrebbe dovuto la sede della conferenza di pace franco-spagnola (una sorta di Yalta del 1500) per dividersi il Regno meridionale. Alla fine, però, gli spagnoli non si presentarono ed il rappresentante del Re di Francia chiamò a testimone della doppiezza spagnola il popolo potentino. Nel 1799 il vento rivoluzionario proveniente dalla Francia investì Potenza a mo’ di onda d’urto, come abbiamo già visto. I successori dei giacobini, i Napoleonidi, portarono dalla Francia un grande riconoscimento a Potenza, che diventò capoluogo della provincia di Basilicata (l’odierna regione Basilicata) al posto della filo-sanfedista e filo-borbonica Matera. Questo legame particolare fra Potenza e la Francia è stato, del resto proprio recentemente, consacrato ufficialmente dalla visita che il 15 aprile del 2013 l’Ambasciatore di Francia in Italia, Alain Le Roy, ha compiuto a Potenza.

POTENZA, CITTA’ VERTICALE

L’aneddoto dei turisti di Torino già riferito (ma se potrebbero fare tanti altri simili) è rivelatore anche di un altro aspetto, tipicamente potentino, che non manca ogni volta di colpire il turista o il visitatore. Potenza è una città tutta discese e salite, up and down, di discese ardite e di risalite, per dirla alla Lucio Battisti. Non è una città qualsiasi nemmeno da questo punto di vista. A Potenza da molti anni si tiene un ottimo festival di arte e cultura che si chiama il ‘Festival delle Cento Scale’. Più o meno, tante sono le scale di Potenza ed una di esse, sulla quale recentemente si è compiuto un interessante esperimento di nuova architettura ecologica urbana, ha cento gradini (più o meno). Se poi alle Cento Scale di pietra antica si aggiungono altre scale, le futuristiche ed ipermoderne scale mobili del più lungo circuito di scale mobili in Europa, allora anche qui, anche nelle scale, balza prepotentemente in evidenza la coesistenza senza contrasti, la compresenza, tra antico e moderno, una dei fattori specifici e più originali dell’identità e del fascino di Potenza. Possiamo, dunque, tranquillamente consacrare Potenza come la città italiana delle Scale. Essendo la città italiana delle Scale è anche, facile immaginarlo, la città più verticale d’Italia, come infatti è emerso ufficialmente da una graduatoria delle città più ‘alte’ (s.l.m.) e nella quale sono stati presi in considerazione tutti i comuni italiani con popolazione superiore ai 60.000 abitanti (che poi è la soglia minima per definirsi veramente città). Il risultato è stato sorprendente solo per chi conosce poco o nulla della città; Potenza è la città più ‘alta’ e, quindi, più verticale d’Italia. La verticalità è un modo particolare di vivere, di organizzare gli spazi, di muoversi, di intendere la stessa forma della città fino al punto in cui una struttura come il circuito delle scale mobili, sconosciuta nella gran parte delle altre città, a Potenza diventa quasi una protesi della mobilità fisica delle persone, una struttura semplicemente indispensabile in molti casi per la vita sociale (persone che non sanno guidare o che non trovano mai parcheggio nel centro storico). Questa verticalità così accentuata, così vertiginosa fa sì che, ai visitatori, Potenza appaia come una città originale, mentre inconsueto appare a costoro il modo in cui i potentini vivono questa caratteristica singolare della loro città. Solo ai potentini questa vita … ‘verticale’ non appare strana. Ma se Potenza non avesse più le scale, ed anche le scale mobili, non sarebbe più Potenza. Sarebbe come togliere il mare a Napoli. Semplicemente impensabile.

PINO A. QUARTANA

 

(Nel collage di foto)

Foto 1 – Chiesa di San Michele fotografata da altra angolazione (foto Berardi)

Foto 2 – Porta San Giovanni (secolo 1100)

Foto 3 – Palazzo otto-novecentesco in Via Vaccaro (foto CO.RA)

Foto 4 – Statua della fontana della Villa di Santa Maria con ghiaccio e neve (foto CO.RA)

Foto 5 – Vialone della Villa di Santa Maria in una notte d’inverno (foto CO.RA)

Foto 6 – Portici Palazzo INA-Generali in Piazza Prefettura (foto CO.RA)

Foto 7 – Scale del Popolo ed Arco (foto CO.RA)

Foto 8 – Parco di Montereale innevato (foto CO.RA)

Foto 9 – Villa Romana di Via Parigi (foto CO.RA)

 

 

 

 

 

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