UNA CURIOSITA’ DANTESCA NEL DIALETTO POTENTINO

Quante volte abbiamo pensato che il dialetto potentino fosse poco alla moda o poco grazioso rispetto ai dialetti settentrionali o poco musicale e poco, o per niente, esportabile come il dialetto napoletano? In questa sede non voglio però rispolverare tutta l’interessante questione dei dialetti gallo-italici, che mi riserverò per una prossima occasione. Voglio invece richiamare l’attenzione del lettore (potentino, ma anche non potentino) su un’altra stranezza o particolarità del dialetto potentino, una stranezza che col tempo mi ha sempre più incuriosito al punto da farmi intraprendere una ricerca molto dettagliata. Si tratta, in altre parole, del non certo frequente modo di declinare il verbo ‘andare’. Mi sono sempre chiesto perché nel dialetto della città di Potenza si usassero certe forme molto inconsuete per declinare uno dei verbi più usati ed importanti finché un giorno non mi sono imbattuto, per caso, in questi versi del Sommo Poeta della lingua italiana; Dante.

Già era dritta in sù la fiamma e queta per non dir più, e già da noi sen gia

E già da noi se ne andava. Sono i primi due versi del Canto XXVII dell’Inferno (Divina Commedia), il canto dedicato ai consiglieri fraudolenti ed a Guido di Montefeltro. Che verbo è o era quello usato da Dante? Non esattamente il verbo andare, ma un verbo difettivo che in alcuni dialetti italiani, solo in alcuni, ancora oggi sostituisce il verbo andare. Si tratta, per dire meglio, di due verbi; uno è il verbo –ire  e l’altro è il verbo -gire. Il primo è ancora molto presente in non pochi dialetti e parlate locali italiane (il participio passato di andare a Firenze si dice –ito, così come in altre parlate dell’Italia centrale con varianti fino a Napoli –iut  o a Bari – sciut (e varianti minori appulo-lucane) Il verbo –gire invece è molto più raro. Diffuso in tutta l’Italia nel 1200 e nel 1300, oggi rimane solo nei dialetti e nelle parlate di poche regioni, come dice l’Enciclopedia Treccani, che lo descrive con queste pochissime parole: “Verbo difettivo, adoperato in poche forme, di cui talune rimaste nell’uso di  qualche regione”. Neanche la Treccani, però, dice di quali regioni e di quali città si tratta. E ben poco, quasi nulla, dice anche l’Accademia della Crusca. Da ricerche ulteriori che ho fatto, sembra che il verbo gire rimanga solo nell’uso corrente di alcune zone dell’Umbria e della Marche. Non a Firenze, come abbiamo appena visto, patria di Dante che usa per il participio passato il verbo –ire  (ito) e non il verbo affine  –gire. La città di Perugia effettivamente è uno dei pochi posti in Italia dove il verbo gire e le sue declinazioni permangono immutati,ma a Perugia la forma della terza persona singolare dell’imperfetto si volge in -giva. A Perugia ‘Dove andiamo?’ si dice Dua gimo? mentre in potentino Addù giamm? (-iamm è una recente sovrapposizione del dialetto napoletano che sarebbe bene eliminare) dalla forma giamo del verbo gire. Se la forma dell’infinito del verbo gire (gì) è ancora usata nei dialetti correnti umbro-marchigiani, invece la forma della terza persona singolare dell’imperfetto (andava) a Perugia si declina in –giva. Per quanto riguarda le Marche, ovviamente, non c’è un solo dialetto marchigiano, ma almeno quattro. Nel dialetto di Ancona, per esempio, la frase ‘non mi andava’ si dice ‘non me java’, a Macerata ‘no me sjava’, nelle zone delle Marche più vicine all’area umbra si dice ‘no me giva’  (come a Perugia, appunto) e nell’area più sottoposta all’influenza del romanesco  si dice ‘non me annava’. Insomma, la forma gìa non viene più usata (semmai in passato lo sia stata) neanche nella ristretta parte d’Italia dove il verbo –gire ancora permane. Ma non è tutto. Il –gìa che Dante mette in bocca nel Canto XXVII dell’Inferno a Guido da Montefeltro risulta essere una eccezione nella eccezione. Se il verbo –gire risulta una rara ed arcaica permanenza medioevale dell’italiano duecento-trecentesco in alcune parlate locali (Umbria, Marche e Potenza), la forma che usa Dante nel Canto XXVII è, a sua volta, un qualcosa di raro anche all’interno del verbo –gire. E’ una forma poetica e non della declinazione comune di quel verbo e, oltre che in Dante, si riscontra solo altre due o tre volte, come, per esempio, nel Ritmo Cassinese che è del 1193 o in Jacopone da Todi;

(Jacopone (ed. Ageno), XIII ui.di. (tod.), 24.53, pag. 85: Vedea i garzuni girse iocanno, / ed eo lamentanno che non podea fare: / si non gìa a la scola, gìame frustanno / e svinciglianno con mio lamentare…)

Gìa ricorre pochissime altre volte in tutta la storia della letteratura italiana. Le forme poetiche del verbo –gire sono solo due o tre e non ho trovato il gìa del Canto dantesco in nessun’altra città italiana, se non a Potenza. Permane oggi solo a Potenza, quindi, la rarissima forma di un raro verbo arcaico dell’italiano più nobile ed originario. Morale della favola; il nostro dialetto ha qualcosa di particolare e con gìa partecipa all’italiano più nobile ed antico, più letterario. Quindi, attenzione a disprezzare il dialetto potentino per una malintesa ansia di modernismo. Accanto ai neologismi anglosassoni ‘ok’ e ‘wonderful’ entrati ormai anche a Potenza nel linguaggio comune di tutti i giorni, teniamoci anche il gìa ed altre parole antichissime del nostro dialetto e che non sono solo tipiche del nostro dialetto ma che fanno parte della prima ossatura della lingua italiana, formatasi subito dopo l’Anno Mille. Coltiviamo accanto all’italiano ed all’inglese anche il nostro dialetto anche se magari ci sembra arretrato o poco ‘figo’. Quella che a molti può sembrare arretratezza non è arretratezza, almeno non in questo caso specifico, ma, piuttosto, si chiama nobile arcaicità, arcaicità anche poetica. Teniamolo sempre bene a mente. E quando usiamo, come i potentini fanno tante volte al giorno, il verbo dialettale gìa, pensiamo anche a Dante ed a Jacopone da Todi.

PINO A. QUARTANA

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