IL SUONO DELL’INVOLUZIONE

Da un paio di mesi circola in rete una sorta di inno musicale lucano, realizzato grazie all’unione di tutti i musicisti della nostra regione, quanto meno di quelli più esposti al pubblico. E’ fondamentalmente una tarantella, che ha come tema la beatitudine della condizione rurale della società lucana (soprattutto nei suoi risvolti gastronomici), toccasana per tutti i veleni che l’odierna vita ci offre. Considerando la libertà sia di fare arte, che di fruirne in base ai gusti, questa operazione condotta dai vari artisti della regione  si può considerare pienamente legittima  e, quindi, sembrerebbe a sproposito il titolo del presente articolo; invece, anche in considerazione della forte portata simbolica che l’arte più e prima di altre forme ha, ritengo l’inno lucano l’ennesima e forte conferma dello spirito che aleggia nella regione, della auto rappresentazione della regione, della rappresentazione che oggi questa regione riesce a fare di se stessa.

Nell’ultimo decennio ha ripreso piede un sempre più intenso sentimento di riscoperta delle tradizioni contadine della regione (magari anche sulla scia del cosiddetto revival etnico, inteso come risposta alla violenta ed omogeneizzante globalizzazione), che pervade e totalizza ogni rappresentazione artistica e letteraria della Basilicata o Lucania che dir si voglia; la discografia regionale del momento sembra non avere altra fonte d’ispirazione al di fuori del tema rurale; il turismo (al netto della rinascita della costa ionica), sembra non sapersi organizzare che attorno a temi rurali, soprattutto nella declinazione gastronomica. Tutto ciò sarebbe una indiscutibile risorsa, se si limitasse ad essere una semplice cognizione di una parte fondamentale della nostra storia, pur con delle enfasi tipiche del ricordo; quando, però, diviene una narrazione unica , mito che si cristallizza nell’immaginario collettivo, inizia ad essere pericolosa per il benessere di una collettività, soprattutto, se questa vive in una delle zone più depresse del Paese.

Che la nostra regione sia figlia di una cultura contadino-pastorale è un dato storico ineluttabile; questo riguarda una parte della genesi della nostra comunità; oltre al passato ci sono, però, un presente ed un futuro, che comportano dei cambiamenti nelle società. Cristallizzare nell’immaginario lucano il mito di un’ era contadina beata e non contaminata da una modernità perversa, che magari in alcuni casi può assurgere anche come ideologia mobilitante, significa voler condannare la comunità regionale ad una estrema forma di alienazione, non permetterle di guardare con coscienza di causa ed ottimismo alle possibilità che il progresso porta e, soprattutto, narcotizzarla politicamente, quello che poi è il nodo cruciale della questione.

Una classe politica, che da venti anni a questa parte ha preso in mano le redini e le sorti della Basilicata , imperniando il proprio dominio sul più che rodato modello clientelare, ritiene proficuo, ai fini della  propria conservazione, mantenere la coscienza collettiva imbrigliata in questo pantano mitologico del rurale.

Esaltare la ruralità come caratteristica identitaria della regione, legittimandola simbolicamente con la musica, con una certa letteratura di afflato leviano-pasoliniano e, comunque, con l’arte in generale, è il più potente volano di paralisi culturale e, conseguentemente, politica, che un potere politico sempre più orientato ad una forma di governo neofeudale possa utilizzare e ciò ancor prima di qualsiasi promessa di scambio clientelare.

Giuseppe Onorati

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