QUANDO A PARIGI SI PARLO’ DI SERRAO E DI POTENZA

Premessa

Allo scoppiare della Rivoluzione Francese, nel 1789, non ci sono immediate ripercussioni a Napoli; è solo dopo la caduta della monarchia francese e la morte per ghigliottina dei reali di Francia (1793) che la politica del Re di Napoli e Sicilia Ferdinando IV e della sua consorte D’Asburgo-Lorena (tra l’altro, sorella di Maria Antonietta e figlia dell’imperatrice d’Austria, Maria Teresa) comincia ad avere un chiaro carattere antifrancese e antigiacobino. Il Regno di Napoli aderisce alla prima coalizione antifrancese e cominciano nel mentre le prime, seppur blande, repressioni sul fronte interno contro le personalità sospettate di “simpatie” giacobine. Il Re di Napoli aveva ottenuto per la seconda volta nel 1796 la pace della Repubblica Francese, ma egli la ruppe per la seconda volta nel 1798 ed invase con una armata di 80.000 uomini il territorio della Repubblica Romana, che era sotto protezione della Francia. Egli giunse fino a Roma ma trovò chi lo castigò duramente. Questo qualcuno era il generale francese Jean Antoine Étienne Vachier detto Championnet, che nel  1798 fu nominato comandante in capo dell’Armata di Roma col compito di proteggere la giovane Repubblica Romana contro le minacce del Regno di Napoli e della flotta britannica. Sebbene la sua armata fosse costituita nominalmente da 32.000 uomini, in realtà, non contava più di 8.000 effettivi, ciascuno dei quali non aveva più di 15 caricatori di munizioni a disposizione. Il generale austriaco Karl von Leiberich, suo avversario diretto, aveva, invece, truppe meglio armate e dieci volte superiori. Nonostante ciò, Championnet gestì così abilmente le sue forze che sconfisse l’esercito napoletano alla battaglia di Civita Castellana il 5 dicembre 1798, nove giorni dopo riconquistò la città di Roma, precipitosamente abbandonata da Ferdinando IV di Borbone, ripristinandovi la Repubblica. Invaso il regno di Napoli riuscì a stipulare a Sparanise l’11 gennaio 1799 un vantaggioso armistizio con il vicario del Re di Napoli, Francesco Pignatelli ma non essendo state rispettate le condizione poste il 23 gennaio 1799 conquistò la stessa Napoli. Dopo la conquista di Napoli, ottenuta non senza resistenza (la rivolta dei lazzari che fu repressa duramente), i Francesi diventano di fatto i protettori della Repubblica Napoletana, del resto, mai ufficialmente riconosciuta dalla Francia. Il 23 gennaio 1799, con l’approvazione e l’appoggio del comandante dell’esercito francese, viene proclamata la Repubblica Napoletana Uno dei suoi esponenti più importanti fu il giurista e filosofo della politica Mario Pagano, originario di Brienza, un paese ad una trentina di km. da Potenza. La Basilicata fu infatti dopo Napoli la parte del Mezzogiorno più ricettiva al messaggio rivoluzionario e giacobino.

Potenza e la Repubblica giacobina

Se dopo Napoli la Basilicata fu la parte del Mezzogiorno più ricettiva al messaggio giacobino, i fatti che avvennero in pochi mesi a Potenza furono senza dubbio i più importanti della Basilicata. La notizia della nascita della Repubblica Partenopea supportata dalle armi francesi dilagò immediatamente in tutto il Regno di Napoli, suscitando un grande entusiasmo.

Nella Cronaca Potentina dal 1799 al 1882 dello storico potentino, Raffaele Riviello, troviamo queste parole:

“Le idee della Rivoluzione Francese e le notizie del suo grandioso e rapido progresso si diffusero nelle contrade della Basilicata e soprattutto a Potenza, nonostante la mancanza di facili comunicazioni e la severa vigilanza del Governo reale”.

Ma adesso  lascio la parola al resoconto che ne fece il coevo vescovo di Canosa e biografo del Serrao, Forges Davanzati. Ho preferito rifarmi alle pagine del Forges Davanzati e meno a quelle di Raffaele Riviello per il semplice e non proprio secondario motivo che il Forges Davanzati fu un testimone diretto di quegli avvenimenti e che era grande amico del Serrao.

“A Potenza tutto il popolo accorse con gioia dal suo vescovo e lo condusse alla chiesa vestito degli abiti pontificali. Là il Serrao arringò il suo gregge dicendo che il Re era fuggito lasciando il Regno senza armi e senza difesa e abbandonandolo alla più spaventosa anarchia; che in questo stato i popoli, riprendendo i loro diritti, potevano darsi un governo qualsiasi, senza che si potesse in alcun modo chiamarli ribelli; che l’armata vittoriosa aveva già proclamato la libertà ed istituito un governo democratico; che bisognava ubbidire a questo governo perché è Dio che servendosi della mano degli uomini innalza ed abbatte i troni e dà gli stati. Quando, egli ebbe finito il suo discorso, il popolo fra le grida di ‘Viva la Repubblica francese! Viva la libertà!’ si recò con lui sulla pubblica piazza e vi piantò l’albero della libertà fra le effusioni della gioia più grande danzandovi attorno”. Secondo un’altra fonte le parole che il popolo potentino gridò nella gioia collettiva della nascita  della Repubblica Partenopea furono, invece, queste: “Francia dentro e Ferdinando fuora” (Riviello).

Riprendo il racconto con le parole del Forges Davanzati e poi tornerò a Riviello.

Ma né Il Serrao, né la sua patria (Potenza in questo caso n.n.) godettero a lungo di questa libertà così facilmente acquistata. Un concorso di avvenimenti che qui sarebbe fuor di luogo raccontare particolarmente, ne compié presto la rovina. Basterà dire che, non appena il Direttorio ebbe richiamato il generale Championnet, che era l’idolo del popolo napoletano, si videro unioni di banditi percorrere le più lontane province napoletana uccidendo tutti i patrioti che si trovavano isolati. Questo primo nucleo di banditi fu ben presto accresciuto da altri scellerati, ai quali i manifesti del cardinale Ruffo, che s’intitolava vicario del Re e del Papa, promettevano l’impunità dei loro delitti, il bottino del saccheggio e i beni dei patrioti. Si vide il cardinale in persona, la croce in una mano e la spada nell’altra, percorrere le infelici contrade alla testa di questi nuovi vandali, saccheggiare ed ammazzare indifferentemente i patrioti ed i realisti stessi. Il Serrao non poté sfuggire all’eccidio generale in cui perirono le persone più distinte per virtù ed ingegno. Due mesi prima della caduta della Repubblica alcuni assassini salariati in Potenza stessa, e che erano tra i beneficati, si recarono un mattino di buon’ora al palazzo episcopale, entrarono nella camera del Serrao, che era ancora a letto, e lo ammazzarono senza pietà. Nello spirare, egli li perdonò del loro delitto, e le ultime parole che pronunciò tra i rantoli della morte fu : “Viva la fede di Gesù Cristo, Viva la Repubblica”. Gli scellerati, non paghi di averlo morto, gli tagliarono la testa e la portarono in cima ad una picca, in mezzo a quel popolo a cui gli era stato così caro e che questo spettacolo agghiacciò di orrore”.

Il popolo potentino amava il suo vescovo Serrao non solo per le sue grandi virtù morali e per la sua rettitudine, non solo per la sua grandissima sapienza e preparazione culturale, ma anche per la sua bontà e generosità.

“Fu il difensore degli orfani e delle vedove ed il padre dei poveri (della città di Potenza n.n.). Oltre alle elemosine che faceva in giorni stabiliti a tutti coloro che si presentavano da lui, alle famiglie decorose che avrebbero arrossito di presentarsi, ne distribuiva altre ogni mese. Vestiva i più indigenti. Una volta che, per effetto di una grande carestia, a Potenza, il pane era salito ad un prezzo eccessivo, egli spartì fra i poveri circa diecimila stai di grano raccolti dalla mensa episcopale. Visitava i malati ed i prigionieri (i carcerati n.n.) ma le sue non erano visite di semplice ostentazione, né si limitava a parole inutili o a fredde consolazioni. Lasciava loro segretamente, sotto il cuscino, o altrove, qualche somma di denaro”.

Concludeva così Domenico Forges Davanzati:

“La sua memoria è e sarà sempre cara ai cittadini di Potenza, laddove il suo assassinio, la cui impunità solo una controrivoluzione sanguinosa ha potuto assicurare, per lo meno è stato oggetto dell’odio e dell’esecrazione generale. Un barbaro può ben spegnere la vita di un uomo virtuoso, ma non la stima pubblica che a lui è dovuta”.

Ma su due punti il Forges Davanzati si sbagliava. Il primo è che i fatti potentini del 1799 non si conclusero con il brutale e barbaro assassinio nella cattedrale di Andrea Serrao e con la caduta della Repubblica Partenopea a Potenza. Voglio dire che se il Forges Davanzati intendeva dire che il mandante politico e morale del barbaro delitto, il criminale calabrese in veste talare cardinale Fabrizio Ruffo, sarebbe rimasto impunito aveva ragione, ma se intendeva dire che nessun accolito della setta sanfedista avrebbe pagato per l’assassinio e la decapitazione di Andrea Serrao,  allora si sbagliava. E non raccontando il seguito dell’Assassinio nella Cattedrale di Potenza non disse nemmeno che alla fine della storia, chi vinse non fu il criminale calabrese in vesti di cardinale, ma vinsero i giacobini potentini. Per conoscere però il resto dei gloriosi e tragici fatti potentini del 1799 bisogna ora che io passi dal Forges Davanzati al Riviello, non senza precisare che ciò che fu fatto contro la persona del vescovo Serrao non fu l’unico delitto perpetrato a Potenza in quelle giornate  dagli ‘assassini salariati’, come li definì il Forges Davanzati. Il Serrao non fu l’unico morto di quel periodo. Vediamo prima di tutto chi erano questi ‘assassini salariati’. Erano una banda di facinorosi incautamente arruolata proprio dal Serrao e che avrebbero dovuto fare tutto il contrario di ciò che fecero, cioè proteggere la Repubblica a Potenza. Invece assassinarono non solo il Serrao, ma i sacerdoti liberali di Potenza. Un fenomeno rarissimo, ricordati da una stradina del centro storico, che, a quanto pare, è l’unica strada intitolata in Italia ai sacerdoti liberali del periodo che seguì alla Rivoluzione Francese. La banda di assassini capeggiata da un certo Capriglione assassinò a Potenza anche il Rettore del Seminario, Monsignor Serra.

Scrive il Riviello:

“Come branco di tigri feroci, la masnada briaca di sangue e furibonda percorre le vie deserte istigando la plebe, che si affaccia agli usci inorridita, affinché li imiti nella strage e nel saccheggio contro i giacobini e la plebe per natura sua ferina, prima tentenna, poi segue quei ribaldi, urla con essi, aggredisce, sforza, incendia e saccheggia. Sinistra sorte toccò alle case di don Domenico Viggiano, don Giuseppe Siani, don Giuseppe Scafarella, Ippolito Pica, Giacomo Mancini, Popa Fasulo e di altri di minore possidenza. Più aspra e furibonda fu la masnada contro la casa e la famiglia di Pasquale Siani, ora casa Branca, ove avendo trovato barrate le porte e disposti i padroni a resistenza vi attaccarono il fuoco. Entrati vi uccisero il sacerdote don Giovanni Siani. Il fratello don Nicola, a scampare la morte, salta da una finestra e fugge a precipizio per la china della sottostante valle, ma preso di mira dai masnadieri, come capriolo, è ucciso al salto”.

Altri omicidi erano nella mente della banda del Capriglione. Nella locanda di Brigida Fasulo, il Capriglione, cioè il capo degli assassini al servizio del cardinale ancor più assassino di tutti loro, si fece scappare che essi avevano intenzione di continuare la mattanza dei giacobini e di alcuni altri possidenti potentini. La Fasulo corse immediatamente ad avvisare la famiglia Addone, che sarebbe stata la prossima vittima. A quel punto accadde qualcosa che sarebbe stato difficilmente prevedibile da parte della banda di assassini sanfedisti. Per raccontare però questi fatti nuovi, di cui il Forges Davanzati non fece neppur il minimo cenno, preferisco usare le precise parole del Riviello. Ero rimasto al punto in cui gli Addone, Nicola e Basileo, vengono messi al corrente dei progetti della banda dei Calabresi (così furono poi denominati) di eseguire  il loro imminente omicidio.

“Nella stessa notte e con molta circospezione si chiamano a raccolta i più fidi giacobini e senza molte parole si stabilisce l’ora, il luogo ed il modo di rendere ai Calabresi la pariglia, prima che questi tolgano loro vita e ricchezze. Profittano della favorevole circostanza che nel dì seguente il popolo si recherebbe fuori dalla città per la sacra processione (era stato deciso di tentare una normalizzazione della situazione indicendo nella zona di Santa Maria, allora considerata fuori dalla città, ed oggi un quartiere nemmeno tanto periferico di Potenza, una processione. Si doveva portare in processione la Reliquia del Sangue Prezioso di Nostro Signore Gesù Cristo presente a Potenza e custodita, come lo è tuttora, nella chiesa di Santa Maria n.n.), affinché riesca meglio il loro disegno, che fu veramente eseguito in maniera spiccio e crudele”.  Il piano prevedeva di simulare una trattativa con la banda sanfedista capeggiata dal Capriglione e di attirarla nel palazzetto degli Addone per tendergli una trappola mortale.  

“Il 27 febbraio, quindi, verso il mezzodì, in casa Addone era tutto preparato ed erano ivi raccolti parecchi giacobini, coraggiosi e bene armati. Gennaro Scolletta, chiamato poi con parola incisiva il Societto, senza dare alcun sospetto, va prima dall’Antonio Capriglione, e poi con un certo intervallo da uno all’altro della masnada e li invita a recarsi da don Nicola Addone, il quale, avendo raccolto una somma tra i possidenti della città, voleva dividerla loro perché non più tenessero in disturbo la città. Si reca l’Antonio Capriglione, bussa la porticina bassa e stretta, entra, ma quelli che debbono ucciderlo restano disanimati e confusi e solo possono dirgli che vada sopra. Il Capriglione sale le scale di fronte e già è per fallire il disegno perché mentre il Nicola Addone gli si fa innanzi, il Calabrese visto in lui un certo turbamento, mette la mano al fianco per impugnare la pistola, allorché l’Addone, più lesto di lui, caccia il pugnale e di colpo l’uccide. Si prende allora fiato e come di tratto in tratto entrano i chiamati a colpi netti di scure vengono uccisi da gente appostata ai lati del portone. Come se ne sgozza uno, subito una donna, per nome chiamata la Zì Caterina, animosa e sollecita, con cenere e scopa leva le macchie del sangue, mentre gli altri trascinano i cadaveri nell’attigua stalla a destra del portone. L’ultimo a recarsi fu il figlio del Capriglione, don Gennarino, il quale giunto presso la casa Biscione e vedendo la strada deserta e le porte chiuse, come se glielo avesse detto il cuore, ebbe subito un triste presagio e gridò Papà mio, tradimento; né finì la parola che una palla tiratagli da don Basilio Addone dalla finestra di fronte gli tolse ad un tempo voce e vita”. Di fatti, sebbene minori, ce ne furono ancora altri. La vicenda della Repubblica Partenopea a Potenza si spense dopo la feroce vendetta giacobina, che ripristinò la Repubblica ma solo per poco e solo fino a quando poi non arrivarono le truppe del Ruffo.

Il Riviello dette questo giudizio:

“I fatti accaduti a Potenza erano in ristrettissime proporzioni il riflesso delle scene sanguinose delle giornate di settembre a Parigi e conseguenza dei torbidi della Rivoluzione,che accaddero frequente in Francia, in Italia e dove la passione politica e il pericolo della propria vita resero fosca la mente e turbarono i sentimenti del cuore”.

La Repubblica cadde a Potenza il giorno 29 maggio del 1799, cioè proprio nel giorno in cui a Potenza si festeggia San Gerardo. Potenza fu l’ultimo baluardo in Basilicata della Repubblica, l’ultimo centro della Basilicata e cadere ed a arrendersi. E Potenza quando cadde, lo scrisse anche il Coco, un altro storico napoletano, cadde con molto onore.

Continua ancora il Riviello:

“Caduta la Repubblica, nei cui moti pare che Potenza abbia avuto la maggiore importanza nella Provincia, molti potentini furono presi e condotti a Matera per essere giudicati come Giacobini, o rei di Stato, da quella Regia Udienza Provinciale”.

Tra tutti i rivoluzionari della Basilicata quelli che a Matera furono condannati alla pena capitale furono solo potentini. Nella lista dei destinati al patibolo c’erano solo potentini. Altri morti potentini che si aggiungevano ai tanti già falcidiati dalla banda sanfedista del Capriglione,a cominciare dal Serrao.  Il 15 marzo del 1800, un anno dopo i moti giacobini e rivoluzionari, sei eroici rivoluzionari e giacobini potentini venivano accompagnati a Matera al patibolo accompagnati da un enorme stuolo di preti e da membri della Confraternita di Santa Maria di Costantinopoli. I loro nomi restino scolpiti nella memoria dei potentini di ogni tempo. Il loro ricordo era andato perduto da molto tempo, ma ora, con questo scritto ho intenzione di ravvivare quel ricordo. I loro nomi: Giosuè Ricciardi, Romualdo Saraceno, Rocco Napoli, Gerardo Molinaro, Gerardo Antonio Vaglio ed il sacerdote Michelangelo Atella, che pochi giorni prima in segno di sfregio era stato sconsacrato dal vescovo di Matera, Cattaneo. Il settimo potentino, Pancrazio Trotti, si era suicidato nel carcere di Matera per non dover subire l’onta del patibolo.

E cosa ne fu di Nicola Addone, il capo dei giacobini potentini? Come fu lesto a uccidere il Capriglione, lo fu altrettanto nel sottrarsi alle grinfie del boia del Re. Se ne fuggì fortunosamente in Francia e dopo pochi anni, quando i francesi conquistarono nuovamente il Regno di Napoli, tornò a Potenza al seguito delle truppe francesi (si era arruolato nell’esercito francese). Tornò a Potenza, che fu elevata capitale della Basilicata al posto della reazionaria e controrivoluzionaria Matera e i francesi gli affidarono anche un lucroso incarico. I vinti potentini del 1799 tornarono vincitori nel 1806 con i Francesi di Napoleone e di Giuseppe Bonaparte.

La risonanza dei fatti potentini fuori dalla Basilicata e dal Regno di Napoli

Mi sembra che a tutt’oggi, dopo più di due secoli, nessuno abbia ancora messo in risalto il dato che i fatti gloriosi e tragici di Potenza e dei potentini nel 1799 ebbero un certo risalto finanche all’estero. Ho già parlato in un precedente articolo del progetto di tradurre la vita del vescovo di Potenza, Serrao, scritta dal Forges Davanzati, in Germania. Ma i più grandi onori il vescovo Serrao e la città che gli dette il seggio episcopale li ebbero in Francia. Prima di raccontarvi anche questi aspetti, finora totalmente sconosciuti, debbo fare una breve premessa e delineare a grandi e brevi tratti una grande figura della storia francese e specificamente della Rivoluzione Francese; Henry Gregoire, l’Abbé Gregoire, come è noto in Francia.

Nato nel 1750 e morto nel 1831, Henry Gregoire fu tante cose assieme. Tra i capi della Rivoluzione Francese, propugnò l’abolizione dei privilegi e della schiavitù e l’instaurazione del suffragio universale. Fu anche il capo dei Giansenisti francesi e il capo della Chiesa Nazionale Gallicana. Deputato alla Convenzione e poi alla Assemblea Nazionale, scrittore e teorico, cercò in più occasioni di correggere e mitigare alcuni eccessi della Rivoluzione Francese, soprattutto nel periodo del Terrore, durante il quale rischiò anche l’arresto. Il  termine contemporaneo ‘vandalismo’ fu coniato proprio da lui.

L’abate Gregoire fu un grande estimatore di Andrea Serrao. Fu lui a chiedere all’esule vescovo giacobino Domenico Forges Davanzati di scrivere un libro sul Serrao e sui tragici fatti di Potenza durante i quali l’eveque de Potenza fu trucidato dalla banda sanfedista del Capriglione.  Nel suo più celebre libro, Les ruines de Port Royal des Champs (edizioni del 1801 e del 1809), Gregoire stila una lista dei più grandi giansenisti francesi e stranieri, passati e suoi contemporanei. In questa lista l’unico straniero citato o, meglio, l’unico giansenista italiano citato è proprio monsignor Serrao, indicato da Gregoire come l’Eveque de Potenza ed è l’unico per cui, accanto al suo nome, Gregoire ritiene di spendere qualche parola e lo definisce in questi termini “Eveque de Potenza, massacré dans la contre-révolution napolitaine, parce qu’il etait républicain” (“Vescovo di Potenza, massacrato nella controrivoluzione napoletana perché era repubblicano”). Ma non basta. La stima del capo dei giansenisti francesi del periodo rivoluzionario nonché sommo rappresentante della Chiesa Nazionale Gallicana per il vescovo di Potenza deve essere stata veramente grande se, facendo ancora una volta eccezione solo per lui, aggiunge subito dopo:

“La mort tragique de ce savant prélat m’avertit de supprimer la liste nombreuse d’écrivains vivans, héritiers de leur talens, de leur vertus, les uns francais, les autres ètrangers; je craindrois de blesser la modestie de tous, et de compromettre la liberté, l’existance meme de ces derniers: et dans le contrées telles de Naples, où la despostisme prononce des sentences de proscription, on a identifie l’acception des mots janséniste et jacobin pour incarcerer et massacrer ceux qui la haine désigne sous cette double qualification”. (pagine 14-15, Henry Gregoire, Les ruines de Port Royal…)

“La morte tragica di questo sapiente prelato mi suggerisce di sopprimere la lista numerosa di scrittori viventi, ereditieri del loro talento, della loro virtù, gli uni francesi, gli altri stranieri; avrei timore di ferire la modestia di tutti e di compromettere la libertà, l’esistenza stessa di questi ultimi: e nelle contrade di Napoli dove il dispotismo pronuncia sentenze di proscrizione, hanno identificato l’accezione delle parole giansenista e giacobino per incarcerare e massacrare quelli che l’odio designa sotto questa doppia qualificazione”.

Grazie ad Henry Gregoire, i nomi di Serrao e di Potenza risuonarono nella Assemblea Nazionale Francese. I fatti di Potenza arrivarono al Parlamento francese. La tragica fine del Vescovo di Potenza fu commemorata nell’Assemblea Nazionale Francese e fu paragonata a quella dei primi martiri del cristianesimo.

“L’assassinio di Giovanni Andrea Serrao indietreggia di un secolo la sapienza umana. Io chiedo esemplare vendetta contro gli autori del sacrilego misfatto”, disse Gregoire.

Parigi fu la prima città che rese onore e giustizia al vescovo di Potenza ed alla città nella quale Serrao compì la sua magistrale azione pastorale fino a perdere la vita. Prima accadde al Parlamento francese e poi accadde in Rue de l’Echiquier, dove fu stampata la sua biografia (in francese) e grazie alla quale per la prima volta, e subito, il pubblico poté venire a conoscenza della tragica e gloriosa vicenda umana di Andrea Serrao e dei giacobini potentini.

 

PINO A. QUARTANA

Nell’illustrazione; l’abate Henry Gregoire

 

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