L’IDENTITA’ LUCANA: OCCASIONI PERDUTE

 

Ripubblichiamo un intervento apparso originariamente nel periodico lucano ‘Lucania Finanza’ nel numero dell’agosto 2000. L’argomento del ‘Reprint’ è la cultura regionale.

 

Nel convegno di Rionero la ricerca sulla identità lucana è stata posta non tanto per una mera riscoperta delle radici storico-culturali del popolo lucano in generale e di quello dell’area Vulture-Melfese-Alto Bradano in particolare (che secondo taluni riacquisterebbe dignità storico-politica- esistenziale e socio-strutturale), ma piuttosto per individuare il ruolo propulsivo di una popolazione quasi sempre dimenticata dalla storia ma che dalla storia e per la storia potrebbe configurare nel ‘villaggio globale’ una connotazione autenticamente autonoma e creativa in una prospettiva di epocale cambiamento della società contemporanea. Ovvero, se l’identità di un popolo non è solo il complesso dei dati caratteristici e fondamentali che consentono l’individuazione o garantiscono l’autenticità di una persona come di una etnia, essa porta alla individuazione del complesso delle caratteristiche demo-etno-antropologiche delle persone costituenti il gruppo stanziato su di un certo territorio in funzione della progettualità socio-strutturale e storico-culturale che detto gruppo intende organizzare per sé e per i propri figli. In tale rapporto funzionale si scopre così non solo la dignità dell’essere popolo, ma anche l’utilità e la complementarietà di detto popolo nei confronti degli appartenenti alle comunità più estese e delle restanti creature dell’eco-sistema. Come appare del tutto evidente, si è trattato di una proposta di ricerca lunga e complessa, capace forse di dare risposte insospettate e di indicare alla politica il servizio migliore da rendere ad un popolo che tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX ha conosciuto una emigrazione dalle proporzioni bibliche (altro che Kosovo) e, tuttavia, da nessuno mai, chissà perché, definita ‘pulizia etnica’. Se più dei 4/5 dei lucani allora residenti nonsi fosse trasferito altrove, forse, Cristo non si sarebbe più fermato ad Eboli…

L’importanza di questa manifestazione rionerese di due anni fa è stata sancita non solo dalle qualificatissime ed autorevoli presenze,ma anche dal buon numero di coinvolgimenti istituzionali (ben 35 patrocini sono stati concessi all’iniziativa) che l’hanno resa un evento di livello nazionale. Il Convegno di Rionero non ha riguardato solo ed esclusivamente l’ambito territoriale con problematiche connesse alla individuazione di un ruolo da protagonista per le popolazioni del Vulture-Melfese-Alto Bradano (di recente sconvolte dal mega insediamento industriale di San Nicola di Melfi), ma ha respirato –in chiave multimediale ed interdisciplinare – kil vento sempre più impetuoso della Comunità Europea e della globalizzazione. Si è trattato in definitiva di un Convegno che ha stabilito le basi per una sfida cui le popolazioni meridionali, in generale, e quelle lucane, in particolare, non possono sottrarsi, se non a prezzo di un neo-colonialismo economico e sociale che altro non sarebbe se non il famoso cappotto rivoltato dei nostri sfortunati progenitori.

 

Il narcisismo intellettuale in Lucania

 

L’ambiente lucano (come, del resto, gran parte di tutto l’ambiente meridionale) tende a perdere le proprie radici forse perché ritenute malate e buone solo per il fuoco. Tendenza questa dovuta prevalentemente ad una sorta di incompiuta elaborazione antropologica-culturale di un “sistema simbolico della lucanità”, che, agganciato a questo o a quel mito, fosse in grado di spiegare in modo razionale l’ancestrale conflittualità tra l’essere umano e la natura prima e l’essere umano e la storia dopo. Un sistema simbolico spesso abbozzato ed incardinato passionalmente dalla popolazione lucana, fino a fissarne un certo grado di codificazione sufficiente a fornire i connotati di una “identità culturale” ma al quale spesso è mancato il lavoro che, quasi sempre, spetta agli”intellettuali indigeni”: l’elaborazione concettuale.  Senza andare troppo lontano nel tempo (anche perché la Lucania ha vissuto periodi storici come quello dauno, romano e medioevale di una certa centralità ed importanza), il brigantaggio prima (che nell’immaginario collettivo rappresenta una sorta di feroce, ma salutare occasione di riequilibrio di rapporti di potere), l’emigrazione (che trasferisce ogni affetto come ogni progetto in vere e nuove patrie), dopo infine la pietrificazione leviana e demartiniana del mondo lucano come mondo magico e subalterno (tutti mali che non hanno trovato terapeuti indigeni ma solo chirurghi forestieri), hanno contribuito nel corso di circa un secolo e mezzo alla rinuncia di qualsiasi seria elaborazione concettuale autoctona. Allora, viene da chiedersi perché il potere che ha amministrato ed amministra la Basilicata è così immutabile, così immobile pesino a se stesso. Forse perché la sua seduzione poggia, con la complicità di ‘sfaccendati’ intellettuali di contorno (già Federico II ai suoi tempi amava circondarsi di tali figure), sul piacere sottile ed incontenibile di bruciare tutto ciò che è “altro da sé”, tutto ciò che non reca il proprio ‘imprimatur’? O, forse, tale potere, al pari di Mefistofele, ama coltivare i cittadini oggetto del proprio dominio, come prede affascinanti, come “anime vive e deliranti”, direbbe Bradbury, intrise di quella autodannazione che non le fa dormire la notte e che di giorno le assilla con la febbre di vecchie colpe? Cosa spinge gli amministratori lucani ed i loro improvvisati “azzeccagarbugli” (ovvero, gli intellettuali indigeni,magari figli della vecchia borghesia agraria e verniciati di qualche dotta nozione presso le università forestiere) a gestire la cosa pubblica senza quel pizzico di amore e di fantasia necessari a concepire un autentico progetto di trasformazione sociale ed economica del territorio amministrato? Cosa rende gli uni e gli altri così abulici, rassegnati, fatalisticamente prigionieri di un passato che spesso essi rinnegano di aver avuto e che maldestramente riecheggiano forse con l’unico intento di tacitare le grida di una coscienza assopita dai consumi materiali , stordita dai richiami prepotenti della ‘modernizzazione’ e sedotta dal fascino discreto della ricca, anzi ricchissima borghesia nordica,ma anche da quello del rassicurante ceto medio impiegatizio? Essi forse credono che sia eterna la loro condizione di ‘pretoriani’ di un impero che lascia, invece, evidenti segni del proprio superamento in qualunque area ad esso sottoposta?

Insomma, fino a quando essi pensano di rimandare il momento della “presa di coscienza” della dimensione storico-strutturale del popolo lucano (al pari di qualunque altro popolo) che in ogni occasione ufficiale dichiarano di amare nella comune sorte,ma che, invece, non perdono occasione di abbandonare a se stesso, tanto che le sue lacrime e le sue miserie sono solo “roba da film”?

Ovvero, fino a quando essi pensano di rimandare l’inizio di un serio processo di conoscenza della realtà di un popolo da sempre costretto a ricercare altrove i significati della propria esistenza, del proprio rapporto con l’ambiente e con la storia, del proprio ruolo e della propria dignità di popolo? Fino a quando essi ritengono di prorogare la loro inaudità inattività? Forse, fino a quando non saranno riusciti ad infrangere i sogni di ed a vanificare i progetti di società civile e di un “popolo buono” come quello lucano e cioè fino a che non sarà completata l’operazione delal sua depersonalizzazione etno-antropologica e fino a quando non saranno stati resi del tutto efficienti nel suo seno gli innesti malavitosi di cui le cronache ci riferiscono sempre più di frequente. Così, è la “dimensione del sé” del popolo lucano (e quello volturino-melfitano, in particolare) a non essere alimentate a sufficienza dagli intellettuali indigeni. Questi, spesso, rinunciano alla propria defatigante, poco remunerativa ed autentica funzione intellettuale per esercitare, invece, forme narcisistiche di burocrazia culturale al servizio delle centrali di potere. Ciò facendo, essi contribuiscono in modo decisivo alla imbalsamazione della cultura lucana all’interno di stereotipi magico-sacrali vetero-rurali capziosamente anti-strutturali e, soprattutto, concettualmente contrari a qualunque forma e tipo di “complessità”. Per i detentori del potere in Basilicata attorniarsi di tali intellettuali  è colpevole tanto quanto venir meno alle promesse elettorali o mettere in crisi una giunta per qualche supposto interesse personale disatteso.

 

La politica del dominio

 

In una regione meridionale come la Basilicata, storicamente immobile ed endemicamente povera, ma con grande prepotenza chiamata oggi dal resto d’Italia e da tutta Europa, in un quadro di tendenziale globalizzazione di mercato, ad un ruolo di sviluppo economico e sociale (e, ripetiamo, sociale) quali linee progettuali di intervento sono identificabili per una corretta gestione del suo territorio  e per una, finalmente, esauriente politica dell’occupazione? Quanto la politica è in grado di investire sul terreno della ricerca scientifica e tecnologica e su quello assai più complesso della conoscenza (al di fuori dei consacrati e ristagnanti santuari della ricerca e secondo armonie eco-equilibrate ed ecocompatibili – perché si realizzi un grande progetto sociale nel quale politica e scienza si integrino al punto di svuotare qualunque sacca di emarginazione esistenziale, culturale e geografico-sociologica? Quale autonomia e quale federalismo possono essere rivendicati dalla Basilicata per l’attuazione di un modello sociale che, riscoperte pretestuosamente le proprie radici, releghi la lamentela ed il parassitismo (anche economico) all’interno di un ben conservato album di vecchie fotografie? Quale “identità lucana” è ravvisabile, a partire dal Vulture-Melfese, in un popolo, che, anziché realizzare il sogno di una “repubblica contadina”, nell’arco degli ultimi 150 anni, ha visto i lontani piemontesi trionfare in modo decisivo prima contro i suoi briganti e poi contro i suoi braccianti?

Il terziario avanzato che si va sempre più configurando come un settore economico strategicamente trainante e decisivo in tutti i meccanismi produttivi della ricchezza, avrebbe avuto ottime possibilità di polarizzare lo sviluppo economico non solo del Vulture-Melfese-AltoBradano e della Basilicata ma anche di tutto il Mezzogiorno d’Italia, sia pure all’interno di un quadro europeo sempre più “finanziarizzato”. Sarebbe, allora il caso, forse,nello stile più autentico della tradizione lucana, di accogliere la sfida del Terzo Millennio  e di abbandonare una volta per tutte l’ormai logoro vestito di chi, aspettando dagli altri un futuro migliore, anziché costruirselo giorno per giorno sbarca il lunario piangendo il morto e cantando inni funebri. Si tratterebbe di una risposta che certamente tradirebbe una sorta di perentorietà, tanto maggiore quanto più alto sarebbe lo sconcerto davanti alla vastità delle problematiche sollevate. Allora, studiare, capire, conoscere tali problematiche potrebbe evitare di sferrare l’ennesima ‘mazzata’ sul cranio del povero popolo lucano, tanto più che il conseguimento della conoscenza scientifica non implica necessariamente la costruzione di una “antistruttura” (ovvero di una struttura contrapposta alla politica); semmai, tale conoscenza potrebbe rendere un servizio alla politica ed alle istituzioni democratiche in un rapporto dinamico fra centro e periferia. In sostanza, poiché le ragioni della conoscenza non alloggiano nelle astratte dimore della speculazione pura ((che anzi accresce lo iato antico e profondo tra cultura popolare e cultura dotta), ma che nel cuore stesso di ogni creatura umana che giorno dopo giorno costruisce il suo sapere e la sua saggezza, si tratterebbe di instaurare un rapporto tra intellettuali ed amministratori lucani (e meridionali, in genere), nel quale il compito politico di questi ultimi assumerebbe una nuova funzione storica. Una funzione che si prospetta oltre che nuova, anche difficile, non a causa della crescita della complessità nelle relazioni sociali, ma per tutto quello che non è stato fatto fino ad oggi a favore delle popolazioni rappresentate.

Una funzione che chiama il pubblico amministratore a svolgere un ruolo di efficace ed efficiente coordinamento dei complessi sistemi interagenti in una società moderna, senza confonderlo mai con quello degli intellettuali chiamati invece a conoscere nella sua interezza e multidisciplinarietà il senso della realtà ed i suoi cambiamenti.

La confusione dei ruoli indurrebbe i malcapitati assuntori alla costruzione (peraltro, già malamente sperimentata) di elefantiache organizzazioni partitiche oppure, in loro mancanza, a pressapochismi scandalosi quanto pericolosi. Far prevalere il ruolo politico su quello conoscitivo indurrebbe alla più assoluta ignoranza.

 

CARMINE GRIMALDI

 

Nella illustrazione, Particolare della tela ‘Lucania ‘61’ di Carlo Levi.

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