L’ARCHITETTO ZAGARI PENSA IL MUSMECI

Figura centrale nella cultura del progetto del paesaggio contemporaneo in Italia e all’estero, l’architetto Franco Zagari affianca l’attività progettuale alla didattica e alla ricerca teorica. I suoi temi privilegiati sono lo spazio pubblico urbano e il giardino. Le sue opere e i suoi scritti testimoniano un approccio al progetto basato sull’ibridazione tra elementi fisici e immateriali, sulla narratività, sulla interpretazione e anticipazione di comportamenti, sull’interattività. È professore ordinario di “Architettura del paesaggio” presso la Facoltà di Architettura dell’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria. Dal 1998 al 2008 è stato Direttore del Dottorato in “Architettura dei parchi e dei giardini e assetto del territorio” delle Università di Reggio Calabria e Napoli Federico II. Dal 1996 fino al 2004 è stato presidente della Sezione di Roma e del Lazio dell’Inarca Nel 1998 è nominato Chévalier des Arts et Lettres dal Ministro della Cultura di Francia. Fra le opere più rappresentative: Giardino Italiano, Expo di Osaka ’90, Giappone; Villa Leopardi a Roma, 1992; Piazza Matteotti a Catanzaro, 1992; Centro di accoglienza delle Grotte preistoriche di Niaux, Francia, 1994 (con Massimiloiano Fuksas, Jean-Louis Fulcrand, G.Jourdan); Piazza Amedeo di Savoia, Cisterna di Latina, 1997; Piazza Montecitorio, Roma, 1998; Auditorium Parco della Musica, Roma (consulenza per Renzo Piano), 2002; Il sistema delle piazze centrali di Saint-Denis, Parigi, 2005-2007.

 

 

Me ne sono subito reso conto quando ero ormai lì, a Potenza, di fronte al Musmeci, che l’intuizione sulla quale eravamo partiti con Basilicata 1799 di rivisitare tutta l’area nodale ai piedi del ponte con un approccio di paesaggio era certamente la dimensione più giusta, ma che l’evidenza di una complessità dei termini in cui questioni di questo tipo di abitudine si presentano era qui gridata, parossistica, tutto era come se le parti separandosi – il fiume, la ferrovia, strade, resti di edifici, margini, lotti, una intensa vegetazione selvaggia – avessero ormai scelto un destino centripeto irrinunciabile di degrado irreversibile. Quindi, una conferma che rinviava però a un cammino non del tutto conosciuto. Il ponte noto in tutto il mondo è precipitato qui quasi cinquanta anni fa, come una meteora aliena, e qui è rimasto, oggetto mitico interrogato come un oracolo e poi sempre rimosso, simbolo di un’ambizione della città ad aprirsi al mondo esterno con un gesto eroico in una preistoria industriale che sembra ormai una leggenda, mentre oggi tutto appare più lontano, la Basentana interrotta, il treno in agonia, mentre più vicina invece da qui è la città, orgogliosa sull’arce, verticale e labirintica, con un moderno sistema di scale mobili che le danno un primato in Europa, arroccata nella sua memoria e in una vita quotidiana colta, elegante, solare, di fama brutta, non è vero, se nella media l’edilizia è di mole ingente e disegno modesto, la città ha un suo respiro corale, pare una montagna in cui si stia producendo una cristallizzazione. Mi sono reso subito reso conto di un rilancio che non avevo calcolato, che la partita decisiva era non solo di ridisegnare un paesaggio diverso, ma di creare all’unisono un supporto per un’organizzazione altrettanto diversa del modo di abitarlo. Probabilmente proprio gli strumenti del progetto del paesaggio erano i più adatti a fare di un punto di debolezza un punto di forza, i più adatti ad affrontare un luogo affascinante quanto assurdo, interrotto e frammentario, selvaggio. Il Musmeci è un viadotto che fa parte della storia dell’architettura moderna realizzato alla fine degli anni Sessanta, opera originale per la sua struttura portante, celebre in tutto il mondo per aver anticipato forme organiche solo in seguito rese possibili dal computer. L’opera è classificata, ma non a norma, gravitante su un paesaggio rifiutato e frammentato non privo anche esso di fascino, il fiume quasi invisibile, le rive incolte che sono il regno di una vegetazione selvaggia, la ferrovia, strade, parcheggi spontanei, edifici abbandonati. Tante cose si potrebbero fare per migliorare la condizione di quest’opera, del resto benissimo seguita dalla Soprintendenza. Il viadotto ha un impalcato banale non accessibile ai pedoni.

Basilicata 1799 mette a reazione questo mostro sacro con un gruppo di 31 giovani portatori di diversi saperi. Il terreno di dialogo è il paesaggio, la semiotica, l’architettura, sotto la guida di Franco Zagari, Isabella Pezzini e Claudio Bertorelli con Elena Lorenzetto, Michelangelo Pugliese e Gerardo Sassano e molti illustri ospiti che si susseguono in tre giorni di lavoro. L’indicazione di metodo è di trarre ispirazione e energia da questa presenza misteriosa che ha una vocazione spiccata di nuova centralità per qualità e per ubicazione, un ascendente mitico e ludico insieme che da cinquanta anni si rinnova, per farne un principio di riorganizzazione complessiva dell’area in cui gravita: connettere le due rive, il fiume, il complesso delle due stazioni ferroviarie (centrale fs e calabrolucane che ha assunto un compito di metropolitana urbana) con un sistema di spazi sopra e sotto a parco e museali che godono di un punto di vista prezioso per nulla vissuto fino ad oggi, un sistema di spazi per la cultura e il tempo libero intensamente vissuti e abitati, un ambiente espositivo, informativo, di ricerca e formazione, un ambiente di svago e di lavoro eminentemente pubblico.

Questa ampia zona degradata nel cuore della città ha una forte potenzialità di paesaggio urbano di qualità, grazie al suo cielo straordinario, l’intradosso del ponte, e grazie al fatto che permette di stabilire relazioni molto utili e interessanti fra parti – le rive, il fiume, la ferrovia – che separate non possono che essere degradate, mentre unite e integrate possono invece attrarre e produrre energie straordinarie. La riflessione si concentra sui caratteri di una porta aperta fra la città e il mondo esterno, fra la sua storia e la sua visione di futuro, fra le generazioni, fra cittadini e visitatori, fatta di attività e di flussi, qualcosa che non c’è e che deve essere, sia un servizio per la città che un attrattore per chi viene dalla regione, ma anche molto più da lontano, cosa potrà rendere impossibile non recarsi a Potenza perché si troverà solo qui? Ed ecco che il progetto non prefigura solo un paesaggio, ma anche il suo funzionamento. Il punto di partenza è stata un’acquisizione del luogo con un nuovo spettro critico, il punto di arrivo è la formazione di una piattaforma di lavoro dove architetti, ingegneri, agronomi, sociologi, semiotici, forestali, economisti, designer, conservatori, artisti hanno sperimentato le basi di un programma comune per un progetto di paesaggio che ha una grande portata culturale, ma anche sociale e economica. Le sole risorse umane e materiali già esistenti in loco probabilmente potrebbero dare luogo a un intervento e a una nuova istituzione che fra benefici diretti e indotti avrebbe un saldo di fattibilità attivo: la riqualificazione urbana, la creazione di servizi culturali di prestigio per la città, la creazione di nuovi posti di lavoro. Sono un sogno molto concreto di cui la città ha disperato bisogno.

 

FRANCO ZAGARI

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