LA CUCINA NELLA POTENZA DI RAFFAELE RIVIELLO (2): NATALE

Ripubblichiamo nella sezione ‘Reprint’ questa singolare descrizione della cucina dei giorni di festa nella Potenza di Raffaele Riviello, storico potentino che ci ha tramandato la vita, gli avvenimenti ed anche le usanze del popolo potentino del suo tempo. Riviello visse nel 1800 (1840-1897). Figlio di Gerardo detto Ciceruacchio,  fu ordinato sacerdote a 20 anni e quindi accolto nella Chiesa di San Michele, ove teneva scuola per ragazzi del popolo. Nel contempo dava una istruzione più raffinata ai figli della buona borghesia, nelle loro case. Presidente del Circolo Lucano Filologico, fu nominato Cavaliere della Corona d’Italia, per meriti letterari. Liberale, moderatamente anti governativo, nonché iscritto alla Loggia Massonica di Potenza (caratteristica molto singolare del clero potentino), era tenacemente legato alle sue due patrie: l’Italia e Potenza. In ‘Costumanze, Vita e Pregiudizi del popolo potentino’ ha tradotto in lingua centinaia di voci dialettali.

Bisognava vedere come in quel giorno ogni donna si metteva in moto per la cerimonia culinaria, tradizionale e solenne della sera, divenendo anche la casa più umile e modesta un tempio di fede, di festa domestica e di tradizionale allegrezza! II pesce veniva da Salerno, da Taranto, da Monte Gargano, da Bari e da Molfetta con vatiche cioè sul dorso dei muli, anche quando vi erano le vie nuove; e ne veniva in abbondanza; laonde assordavano le voci dei pisciaiuoli. Cè chi capituni, capituni, gridavasi con l’enfasi larga e schiacciata marinese, alla quale rispondeva col suo accento attonato il Salernitano: Oh, che treglie! oh, chi mirluzz’!… Signò vinite ca, ca teng’ li treglie fresche. Quelle voci a cantilena marinaresca segnavano la nota più viva ed allegra per chi poteva spendere, perché allora le famiglie dei contadini, in vece del pesce, si contentavano del baccalà: il proverbio potentino dice: (lu baccalà pur’ è pesc’) e dei fasuli, cibo che forse nei più antichi tempi era il piatto prelibato, e di rito in quella sera. Verso l’ora del tramonto non vi era casa, donde non si vedessero uscire colonne di fumo dalla ciumminiera e da ogni parte; e non si sentisse il nauseante odore del baccalà, o del pesce fritto alla padella, o del capitone, messo ad arrostire allo spiedo, aspergendosi spesso con larghi spruzzi di aceto e olio; o il tanfo delle fritture di scrupedd’, strufuli, chiènile, paste di farina lattiginosa, e indurita con torlo d’uovo, che si friggevano in olio abbondante, e sopra si versava un po’ di miele, facendo da piatto dolce pel Natale. Ad un’ora di notte, cessato l’allegro e lungo scampanio delle chiese, ogni famiglia si metteva a tavola per mangiare. Già il capo della casa, pater familias, padre o nonno che sia stato, aveva messo a lu fuulare (focolaio) lu ciucculu (ceppo) ad ardere, invocando le benedizioni e la divina assistenza del Bambino che doveva nascere. Poi prendeva il posto di onore a tavola, e prima di ingignà lu piccilatiedd’, cioè mettervi il coltello per fettarlo, si scoprivano tutti il capo, e si recitava il Pater noster e l’Ave Maria, ed egli dava la benedizione e gli auguri alla famiglia, la quale glieli ricambiava con espressioni di reverenza e di affetto, e giovani ed i piccoli gli dovevano baciare pure la mano. Anche allora qualche birichino di figlio o di nipote non si piegava di buona voglia quell’atto di sottomissione affettuosa e di rito; ma non per cattiveria di animo, sibbene per soggezione, come dicevasi, o per vergogna. Certo è che in quella sera sul ciglio del padre si affacciava la lagrima di gioia e di tenerezza, mentre i figli gli figgevano in viso gli occhi lucenti ed amorosi, e rispondevangli col loro innocente sorriso. Sebbene i più grandicelli talvolta, annusando i tempi moderni, si mostrassero lievamente riluttanti a quello scambio di amore e di rispetto; pure nel tutto insieme era una usanza di religiosa e domestica allegrezza, la quale rasserenava la mente e riscaldava il cuore per sentimenti di famiglia, di educazione sociale, e per la speranza di premio futuro, la qual cosa invano si cerca con gli attuali pensieri di miscredenza, cinismo e di progresso. Un Dio che nasce povero e tremante di freddo, come noi, sarà sempre il più grande ideale di fede sublime che possa confortare la coscienza e la mente umana, alleviandone le sofferenze e le miserie, e questo grande ideale si imparava fin della più tenera età nelle festose costumanze di famiglia! Un Dio che si democratizza, solleva la fede del volgo in coscienza e dignità umana; frantuma gli scettri dei tiranni, e polverizza gli stemmi di ogni superbia sociale! Fattasi questa cerimonia, il padre di famiglia, (spettava a lui il diritto) fettava lu piccilatiedd’ e poi si cominciava a lavorare lautamente di ganasce. E quindi vermicelli a agli’, e uogli’; e poi pesce, pesce e sempre pesce, a zuppa, fritto, arrostito, da annodare la gola; finocchi, cardoni, purtaall’ (portogalli, aranci) castagne, marroni, pere, mele, uva, fichi ed ogni sorta di frutta; e poi le fritture di pastelle (zeppole, chiènile, e strufoli) con orciuoli colmi di vino generoso e di moscato, chè di vinello non bisognava neppure parlare nel Natale. Evviva i nostri nonni! Evviva la sera del Natale! Non si andava a letto, o si andava per poco, e si restava lì d’appresso al focolaio a novellare, aspettando, dicevano le donne e i fanciulli, che la Madonna venisse ad asciugare a quel fuoco li fasciatori, o pannicelli, pel bambino Gesù; e si faceva la cascaggine sino a che non suonavano le campane per le funzioni notturne dell’Ufficio nelle chiese. Appena si sentono i primi tocchi, o squilli di campane, una nuova onda di allegrezza si spande per la città. La gente si mette in moto, gruppi di ubbriachi, spari di tric-trac, ragazzi con lanterne di carta, contadini col tizzone acceso, braccialiedd’ che vanno cantando, monelli che fuggono paurosi, fingendo di avere inteso o visto, vero pregiudizio, lu dupeminaro (lupo mannaro), e di qua e di là gli scaccini e i preti sagrestani delle tre Chiese, che con torce a vento, o fiaccole resinose, vanno in giro per chiamare i preti capitolari o canonici, e accompagnarli poi alla propria chiesa per le sacre cerimonie. Secondo le parrocchie, il popolo andava a S. Gerardo, alla Trinità a S. Michele, a S. Francesco nei tempi più antichi, e anche a Santa Maria, chiesa dei Riformati; ma per lo più a questa vi andavano quelli più desiderosi di novità, giovanotti e figliole che amavano ritrarre impressioni di fantasia, e anche divertirsi in birichinate nel buio della notte. E davvero in quelle notturne, solenni e lunghe funzioni si trovava godimento di divozione e di diletto. Allora il popolo tirava alla chiesa, come a ritrovo di fede, di conforto e di sacra contentezza. La chiesa cattolica ha saputo adattare il culto più attraente, grandioso e sublime al sentimento ed alle aspirazioni dell’umana natura. Rilevando nelle sue sacre cerimonie l’idealità e lo spirito del Vangelo, armonizza cielo e terra; ed allettando la mente, il cuore, la fantasia ed i sensi dei credenti, solleva l’uomo a Dio, e lo aiuta a meglio comprendere la forza del gran ministero, per cui al cristianesmo il mondo si rivolse. E poi in chiesa si stava bene, e caldo, sopratutto quando di fuori spirava borea, o vi era la neve. Dall’altare, straordinariamente illuminato, si spandeva copia di luce, letizia di fede e di grazia; il coro era imponente per numero di sacerdoti e ritualità di canto, e di salmodie; abbagliava quel grande apparato di cerimonie sacre; in fine la predominante nota della pastorale, a suono di organo, incitava la fantasia a raffigurarsi il Dio che si rivela povero ai pastori nella grotta! La massa degli uomini, mezzo assonnati, stava tra gli archi e le parti laterali della chiesa, serbando alle donne la navata di mezzo; e qui e là si alava a bocca larga, si stuzzicavano starnuti, annusando erba santa, tenuta in cannetto che faceva da tabacchiera; e l’ambiente si riempiva di fiati e di certi profumi, che farebbero arricciare il naso delicato del lettore. I vecchi e le vecchie stavano tutti intenti alle sacre funzioni, ringiovanendo in ispirito al pensiero della fede; ma i giovani e le giovani, senza offendere Dio, si divertivano meglio a fare con gli occhi un po’ l’amore. La funzione finiva coll’apparire del giorno, e talvolta succedevano curiosi aneddoti pei fumi del pranzo della sera e l’insonnio della notte. Spesso i ragazzacci ne profittavano, divertendosi in quella strettezza di folla, e con la cascaggine dei sonnolenti e degli ubbriachi, a cucire i sottanielli delle donne e gli abiti dei contadini, in guisa che all’uscire dalla chiesa avvenivano scene di sorpresa e di risate. Fra gli aneddoti ne narro uno, che davvero è grazioso, e se non ritrae lo spirito scherzevole, che alcune volte aleggiava anche tra le idee e le credenze religiose di quel tempo, per lo meno servirà a togliere qualche impressione di noia su questa minuziosa descrizione delle antiche usanze. In una notte di Natale, nella chiesa della Trinità, allora a tre navate, come quella di S. Michele, si era affollata la gente della parrocchia per assistere ai divini ufficii, e commemorare la nascita annuale del Bambino. Giunta l’ora, in cui si doveva fare la processione intorno la chiesa, e mettere il Bambino sull’altare maggiore, incominciano a sfilare i preti con i ceri accesi, ed il popolo a picchiarsi il petto, pregando e piangendo per gioia santa di sincera fede; sicchè commoveva vedere quella tempesta di pugni; che si alzavano e scendevano tra la fitta selva di teste chiomate o calve della gente inginocchiata. Un certo vecchio prete, piccolo di corpo, ma eccellente di stomaco a mangiare e a bere vino, portava in quella notte il Bambino, alla cui vista cresceva lo strepito dei picchi e il vocìo delle preghiere. Ad un punto il prete, o per intoppo, o pel vino bevuto la sera, si lascia cadere di mano il Bambino, ed egli senza commuoversi di divozione e scomporsi in viso, a voce alta dice: «Oh, st’ann’ è ’nar’ ntist’» per significare che era nato irrequieto, impertinente e birichino; e quindi si piega, riprende il Bambino, e messolo tra le mani, continua la processione, mentre la gente, per quella caduta, si picchia più forte il petto, piange, grida; e qualcuno trattiene a stento il riso. Dopo le funzioni della notte, per le vie si vedeva la gente sollecita manifestare l’allegrezza e la fede dell’animo, dando e ricevendo felicitazioni ed auguri. Si andava per le case dei parenti e dei compari, stimando sacro dovere ravvivare nella gioia i vincoli di parentela e le relazioni sociali. Non ancora la vanità ed il civismo avevano messo in burla tradizioni ed usanze di religione e di famiglia! Intanto tra pensieri di chiesa e di auguri si preparava il pranzo di rito, torcendosi il collo a grossi caponi, a galline vecchie, ed in mancanza di polli si suppliva con carne di maiale e con conigli. Minestra maritata e strascinari erano i piatti caratteristici del Natale. Dicevasi maritata, con fellicissima metafora, perché composta di scarole, vezze, finocchiacci e cardoni, facendosi ducumare (cuocere bene) nel brodo di gallina e di salami saporitissimi, mischiandovi anche formaggio grattugiato e a pezzettini. Li strascinari erano pasta casareccia, detti così, perché strisciati a forza di dita sulla cavaruola (tavoletta incisa a disegni). Scolandosi cotti, dal caldaio, si mettevano a strati nel piatto, conciandoli copiosamente e condendoli di formaggio o brodo di capone, da farne il cibo più squisito delle nostre usanze: sicchè ogni strascinaro era un boccone prelibato, e ne bastavano una trentina a saziare il gusto e l’appetito per ricordare lietamente il Natale. Nella chiusura dell’anno, la sera, si andava prima ad assistere alla funzione di grazie nella chiesa di S. Francesco, e poi si faceva una gustosa cenetta di rito tra le consolazioni di famiglia. Nel mattino di cap’rann’ (capo d’anno) di nuovo auguri a diritta e a manca, e per le vie non si sentiva altro che: Buon’ cap’rann’, cumpà, cu tutta la famiglia – cent’ di quest’ giorn’ e turnesi – salut’ e pruvirenza – na bella zita ricca – furtuna e figl’ masch’ – pace e cuntantezza! e simili espressioni semplici, schiette ed affettuose, solendosi anche in queste feste solenni metter fine a malumori ed inimicizie. A mezzodì s’inaugurava l’anno nuovo anche con pranzo di eccezionale lautezza. Nelle sole feste di gaudio e di solennità religiosa si aveva questo lusso popolare di cucina casereccia, perché d’ordinario, come si dirà, anche nelle domeniche bastava una minestra con bollito, fatto con miscela di salami, cioè di coria, zappil’, custaredda, osso di spadduccia o di prisutt’ (cotenna, piede, costola, spalluccia, prosciutto), un pezzo di salsiccia o di pezzente che era fatto con i minuzzoli più scarti del maiale. Ben si comprende come anticamente l’uccisione del maiale formava la provvista di una casa, quando non si era soliti di andare così spesso a comprare la carne al mercato. Col giorno di Sant’Antonio, 17 Gennaio, entrava il carnevale, e più che di maschere e di festini, (riducendosi il ballo alla sola tarantella, e le maschere a qualche travestimento famigliare e barocco), era tempo di scialo di vino, e di savucicch’ (da savu, savor, sapor e ciccia, cioè carne saporita) e di maccaron’ a ferrett’, o cu la gionca, fatti con ferro sottilissimo o con fili di giunco. Sopratutto nell’ultimo giorno di carnevale non vì era casa, ove non si sentisse il rumore che le donne facevano nel premere e distendere con le palme delle mani la pasta, minutamente tagliuzzata, intorno al ferretto o al filo di giunco, da farne maccheroni lunghi e fini, e così festeggiare lautamente il dio della tarantella e dei buon gusto, dello stomaco e dell’ebbrezza. Per le vie spesso i ragazzi cantavano per burletta il ritornello, come se piangessero: Carnvale mio, chien’ d’uogl’. Sta sera maccaron’ e crai fuogl’! (carnevale mio, pieno d’olio, stasera maccheroni, e crai foglie), per dire che dopo venivano i lunghi giorni di severa parsimonia e di astinenza. E per lo più nelle case dei contadini, di maccheroni se ne facevano tanti, da mangiare a sazietà a mezzodì e a sera, e stiparne (serbarne) anche un piatto per mangiarlo verso mezzanotte, prima che la campana annunziasse mestamente la fine o la morte del carnevale, e l’entrata della quaresima: cioè il pericolo di olio, di astinenze, di confessioni, di penitenze, di chiesastiche mestizie e di domestiche malinconie.

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