LEVI ED IL LEVISMO CINQUANT’ANNI DOPO

Considerazioni critiche a margine di un libro sull’opera complessiva dell’autore del “Cristo si è fermato ad Eboli”.

 

Anche questo saggio viene ripubblicato a distanza di ben diciotto anni (uscì sul periodico ‘Lucania Finanza’) ed anche questo scritto, dopo diversi anni, non necessita di alcuna correzione. E’ ancora attualissimo, anzi, dopo Matera 2019 lo è ancora di più. L’unica cosa che oggi cambierei nel testo è che  al posto di “ideologia lucana”, metterei “ideologia basilisca” (P.a.Q.)

 

A distanza di decenni dalla pubblicazione del grande romanzo “Cristo si è fermato ad Eboli” e a quasi venticinque anni dalla morte del suo autore, il discorso sul significato complessivo dell’opera di Carlo Levi non può dirsi ancora concluso per sempre, anche per il peso che essa esercita tuttora su largi strati dell’intellettualità lucana. Si tratta non solo di riconsiderare la produzione leviana alla luce dei nuovi fatti che hanno interessato la cultura, l’arte e la politica di questi ultimi anni, ma anche di mettere in risalto i suoi lati ancora ignoti o poco esplorati. Tale esigenza, d’altronde, è molto avvertita in un momento come l’attuale che può segnare una svolta decisiva non solo per la cultura lucana, ma per il destino dell’intera regione. Giunge, quindi, quanto mai opportuna per vari motivi l’uscita di un nuovo libro su Carlo Levi, scritto da Gigliola De Donato, docente di Letteratura Italiana all’Università di Bari, che prima di questo volume si era già occupata spesso dell’intellettuale piemontese (“Le parole del reale: ricerche sulla prosa di Carlo Levi”, Edizioni Dedalo, Bari, febbraio 1998, lire 26.000, oggi euro 13).

Il primo motivo che rende importante questo testo della De Donato è che esso ci permette, fuori dai canoni di una vulgata dilettantistica purtroppo molto florida in Lucania, di sgombrare il campo da un equivoco preliminare che ancora oggi procura danni non lievi all’intera cultura regionale. La questione da dirimere, d’abord, mi sembra quella di definire un esatto profilo disciplinare e professionale di Carlo Levi. Chi fu veramente Levi da questa angolazione? La De Donato non affronta la questione in modo specifico, però, ci offre indirettamente degli spunti utili per un giudizio più preciso in tal senso. In altri termini, si tratta di esplicitare alcuni indici che siano in grado di restituirci esattamente gli aspetti formali del suo pensiero e della sua opera, entrambi molto difficili, per certi aspetti, da giudicare e da inquadrare. La De Donato è convinta, ad esempio, che nell’opera complessiva di Carlo Levi l’aspetto teorico sia inscindibile da quello artistico. Dal quadro che la studiosa barese delinea si può ben comprendere come Levi sia stato molte cose assieme, troppe cose, forse; per alcuni è stato un grande scrittore, ma anche un antropologo, un poeta, ma anche un giornalista, un politico, un esperto in questioni socio-economiche e, perché no?, anche un filosofo. Analogamente, tanti, forse, troppi, sono stati i piani ed i registri che usava e fondeva; quello antropologico, quello mitico, il documentarista, il poetico, il politico, il socioeconomico, l’autobiografico-memorialista ed altri ancora.

“Politica, pittura, racconto, analisi sono in lui facce della stessa prismatica complessità del suo essere uomo e della sua stessa concezione della vita, del modo di vivere l’arte…”, puntualizza la De Donato.

Fino all’ultimo, cioè fino a “Quaderno a cancelli”, Levi si espresse con una scrittura dove convivevano generi diversi e difficili da tenere insieme (“anche questo è un libro-saggio-romanzo-inchiesta-confessione-diario di bordo di una esperienza personale refrattaria alle regole di un genere letterario determinato, se non quello molto genericamente inteso dell’autobiografia”) e questa fu una costante ed una caratteristica di tutta la sua produzione.

Mi sembra sbagliato, però, parlare di inscindibilità di tutti questi piani e saperi. Al massimo, si dovrebbe parlare di compenetrabilità. Scindere le ragioni non solo è sempre possibile, ma necessario. Da questo punto di vista Levi, mentre sceglieva quel tipo di scrittura fu coerente con se stesso, visto che non gli sfuggivano i più intrinseci meccanismi di funzionamento della ragione occidentale contro la quale egli decisamente si schierava. Uno di essi è proprio quello della scissione delle ‘ratio’ differenti e dei differenti generi. Molto probabilmente, una delle cause anche di certe sue discontinuità e di certe sue ambiguità o, se si preferisce, di certe sue ambivalenze risiedeva , questa è una mia ipotesi, nella sua idiosincrasia verso la modernità e, di conseguenza, verso le strutture di pensiero di quelli che egli definiva  “i conquistatori occidentali”. Da queste osservazioni emerge già sufficiente materia per poter escludere che Carlo Levi sia stato anche un filosofo. Del filosofo, a Levi mancavano alcune caratteristiche fondamentali. Oltre alla non prevalenza dell’interesse puramente teoretico per la dimostrazione concettuale delle sue tesi, era ed è di impedimento ad una configurazione di Levi come filosofo il fatto  che il suo pensiero si presentasse e si presenti come non formato e, fino alla fine, fondamentalmente indeciso. Ma voglio credere di non aver bisogno di argomentare oltre su questo punto, tanto dovrebbe apparire evidente anche per ulteriori motivi che non si può  vedere in Carlo Levi un filosofo né la sua  opera come l’opera di un filosofo. Ciò non vuol dire affatto, però, che nell’opera di Levi, come nell’opera di ogni grande narratore e di ogni grande artista non si possano riscontrare dei significati filosofici, né significa che egli non avesse una sua specifica visione filosofica. Analogamente, si può affermare che non era un politico, nonostante la sua militanza ed i suoi incarichi nel Partito d’Azione, e nemmeno un filosofo/teorico della politica senza che, con ciò, si voglia automaticamente dire che il progetto leviano fosse povero di senso politico.

Occorre allora ricercare con attenzione il centro dell’opera leviana. Secondo me (e mi sembra anche secondo la De Donato), esso risiede nell’arte con diretto riferimento alla letteratura ed alla pittura. Visione filosofica e visione politica, taglio esistenziale-autobiografico e piano sociologico, indagine etnoantropologica e progetto poetico sono profondamente compenetrati, questo è vero, ma a patto che si specifichi che tutte queste compenetrazioni sono valide solo all’interno della sfera estetica. In essa e solo in essa, non nella società, tutto ciò può coesistere senza contraddizioni e reciproci invalidamenti. Solo nella sfera estetica l’opera leviana, come sostiene anche la studiosa barese, “non è doppiezza, ma ricchezza di pensiero, complessità di rappresentazione artistica”. C’è solo una possibilità fuori dall’estetico di tenere insieme tutta questa complessità. Tale possibilità sarebbe a portata di mano operando una fuoriuscita non verso la società, verso la politica empirica, ma una sorta di raddoppio estetico, considerando romanticamente la stessa vita dell’artista come un’opera d’arte. Facendo così, però, l’arte ed i meriti artistici di Carlo Levi, che sono grandi, verrebbero svalutati e non è certamente questa l’opzione che preferisco. C’è, a ben vedere, una possibilità ancora peggiore di conciliare tutti i  registri e le logiche disciplinari, i generi ed i piani che convergono nella produzione leviana ed è quella che si potrebbe definire la scorciatoia dell’ideologia. E’ noto che per opera d’arte propriamente tale (ed opera d’arte è certamente il “Cristo si è fermato ad Eboli”) il collante che l’ideologia attiva al suo interno ed all’esterno (legandola alla politica empirica, alle mutate congiunture storiche e sociali) è nocivo, più o meno, come quella colla che alcuni tossicodipendenti aspirano in mancanza di qualsiasi altra droga. Ma, anche su questo punto, il discorso è molto più complesso di come appare e di come è apparso a tutti quei levisti ed a tutti quei critici che si sono occupati di Levi fino all’estenuazione.

Ancora una volta, occorre non mettere tutto insieme confusamente e disinvoltamente, ma dividere e separare ragioni, generi e piani. E’ importante poter vedere il Cristo ed il resto della produzione leviana come cose separate l’una dall’altra. E così pure il senso politico dell’opera e la militanza politica personale di Levi, il suo messaggio politico autentico e quello divulgato ed usato da altri e per altri fini. Ma, anche così, non avremmo ancora fatto a sufficienza. Al di là delle strumentalizzazioni di quelli che per anni si sono autoinvestiti del ruolo… sacrale… di suoi eredi spirituali, non si può ignorare il fatto che lo stesso Levi fece molto, dal canto suo, per caricare di ideologia, di impegno politico-ideologico, il suo grande libro, come Gigliola De Donato, alla quale lascio ora la parola, fa notare:

“In primo luogo, si è sempre caricato (ed enfatizzato) il Cristo si è fermato ad Eboli, in positivo, ma anche in negativo (si pensi alla polemica con Mario Alicata) con un vecchio equivoco che stenta a morire di una responsabilità programmatica esplicita, attribuendo al libro – quasi fosse quello il suo succo – una proposta politica definita di un progetto economico-sociale tecnicamente aderente ad una ipotesi di sviluppo e ad una specifica dottrina. Anche Carlo Levi, in verità, contribuì con una sua un po’ ingenua carica di autosuggestione ideologica ad alimentare un’immagine di rivoluzione contadina ispirata, come a me sembra, anche da certe sue significative citazioni, a certo populismo russo otto-novecentesco”.

Visto che sto proponendo di tornare a vedere nel “Cristo si è fermato ad Eboli” solo, o soprattutto, un’opera d’arte letteraria, è perfettamente conseguente dire, ricalcando alcune categorie della, finora, insuperata (tranne in alcuni aspetti che non riguardano questo discorso su Levi ed il levismo) filosofia dell’arte di Theodor W. Adorno, che il messaggio politicamente impegnato (nel caso di Levi, il messaggio è, sostanzialmente, quello della scoperta, dell’autonomia e del progetto rivoluzionario del mondo contadino) non è l’elemento decisivo per giudicare un’opera d’arte. Il messaggio appartiene più alla sfera della filosofia politica o della politica che a quella dell’estetica ed, inoltre, esprime in modo enfatico un surplus ideologico del materiale, che, dal canto suo, però, non coincide affatto con il contenuto di verità artistica dell’opera d’arte. Non è neanche lo specifico messaggio leviano a decidere sulla grandezza del “Cristo…” : il mondo contadino non può vantare alcuna superiorità estetica o morale. Se Levi avesse scritto un romanzo ambientato in un mondo borghese o operaio, i criteri di valutazione artistica sarebbero stati gli stessi. Né si può credere che sia il realismo in sé il criterio fondamentale di verità estetica. Basti pensare al genere fantasy per capire che non è così. Basti pensare al successo planetario di un’opera come “Il Signore degli Anelli” di Tolkien per revocare la supposta superiorità  del genere realista  o neorealista su tutti gli altri.

L’opera d’arte è, però, sempre ambivalente ed un residuo ideologico può stazionare anche nella migliore opera d’arte. Si può ben comprendere, allora, che non si tratta di rispolverare vecchie concezioni borghesi dell’arte (l’art pour l’art, giusto per intenderci), ma di assimilare veramente e fino in fondo, cosa certamente non facile, la lezione estetica di Adorno per il quale, quel che è essenziale non è il punto di vista sociale dell’artista, in questo caso di Carlo Levi, non l’immanenza dell’arte nella società, ma l’immanenza della società nell’arte. Per il caposcuola francofortese, il contenuto di verità artistica dell’opera non va identificato senz’altro con il suo contenuto sociale di verità, l’errore in cui ricade puntualmente tutta l’arte impegnata; verità artistica e verità sociale vanno tenute ben distinte all’interno di un giudizio su un’opera d’arte. Questa distinzione adorniana è essenziale anche per un più aggiornato e meno provincialistico discorso su Levi e sul levismo. Per quanto riguarda la verità artistica dell’opera di Levi, non ho molto da aggiungere a tutto ciò che in cinquant’anni è stato già scritto, se non, forse, il fatto che anche una grande opera letteraria come il “Cristo” è sempre suscettibile di essere interpretata e giudicata in modo nuovo, alla luce di nuove correnti letterarie e di nuove categorie estetiche, in modo che un giudizio estetico possa anche rovesciarsi o, addirittura, rendersi superato ed impraticabile.

Alcuni filosofi e teorici dell’arte sostengono, non a caso, che la riflessione sistematica sull’arte è oggi al capolinea. Secondo Sergio Givone, tanto per citare uno dei più importanti studiosi italiani di estetica oggi, l’estetica sta tramontando a favore dell’ermeneutica che privilegia l’interpretazione e la critica delle singole opere. Ai fini di una ricostruzione dell’opera leviana e del levismo, posso, però, anche mettere fra parentesi la questione del contenuto di verità artistica dell’opera ed occuparmi, invece, del suo contenuto sociale perché il discorso che voglio portare avanti, essenzialmente politico, passa proprio di lì.

Anche all’interno di un discorso che riguarda specificamente il contenuto sociale di verità serve una ulteriore distinzione, quella tra verità sociale al tempi in cui l’opera d’arte venne alla luce e verità sociale contemporanea. Si pone, in altre parole, nel caso in questione, la questione dell’attualità del messaggio politico-sociale dell’opera di Carlo Levi nonché del levismo.

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Parlando dei naturalisti minori, Adorno scriveva in “Teoria Estetica” che il contenuto sociale, critico, dei loro drammi e delle loro poesie era superficiale, rimasto indietro alla teoria della società, ai loro tempi già pienamente elaborata e da loro non molto seriamente recepita. Analogamente, si potrebbe dire che la concezione del mondo contadino di Levi era già, ai tempi in cui scriveva il romanzo, più arretrata rispetto all’effettivo livello storico dei contadini che stava osservando. Quando, negli anni ’30, Levi analizza il mondo dei contadini lucani e di Aliano, in provincia di Matera, e lo vede come un mondo non storico, negato alla Storia, non si accorge del fatto che quel mondo, per quanto apparentemente non storico, partecipa, seppur marginalmente, alla Storia. Levi sottovaluta le circostanze in cui, qualche volta, i contadini lucani non hanno assistito solo passivamente, come i vinti di sempre, ma la Storia l’hanno pure fatta. Il brigantaggio, l’emigrazione nelle Americhe (senza parlare nemmeno di quel che molti contadini lucani arrivati oltreoceano hanno fatto col loro lavoro nella nuova patria, epopea che la rivista “Basilicata nel Mondo” nel 1924 stava già a testimoniare), la partecipazione alla Grande Guerra sono i grandi fatti storici che avevano formato nei contadini lucani degli anni ’30, un, seppur superficiale, senso storico. La grande Storia, anche la storia dei grandi fatti internazionali e finanziari, lambiva già, in realtà, le remotissime contrade lucane. Quando, a seguito del crollo di Wall Street del 1929, si apre la Grande Crisi, i suoi effetti drammatici arrivano finanche ad Aliano, che assiste al rientro di molti suoi figli precedentemente emigrati negli USA (Levi ne parla a pagina 115 del suo romanzo), i quali sono, naturalmente, ben coscienti del fatto di essere immersi in grandi eventi storici che influiscono anche sulla loro vita. Alcuni anni dopo, nei primi anni ’50, nel momento in cui vede nell’occupazione delle terre un segno di speranza per il riscatto del mondo contadino, Levi non si accorge che quella speranza aveva un qualche fondamento proprio in virtù del fatto che i contadini lucani non erano poi immersi in modo così irrimediabile in quella immobilità atemporale (“elevata – come scrive la De Donato – ad emblema di un valore alternativo alla civiltà fin troppo evoluta”) che lo affascinava. Nonostante ciò, Levi sovraccarica di sensi enfatici il mondo contadino lucano, compie una mitizzazione fortemente ideologica, non poco ambigua. La scoperta del mondo contadino, della sua marginalità e della sua sofferenza diventa un luogo topico fortemente saldato al concetto di autonomia e, quindi, di rivoluzione. Lo slittamento semantico e progettuale sull’asse scoperta/autonomia/rivoluzione se, all’interno di una valutazione estetica, appare felicemente compiuto e risolutivo, all’interno, invece, di una visione politica appena un po’ accorta assume caratteri deformanti che connotano il discorso leviano in senso mitico, ideologico ed utopico (nel senso peggiore di questi termini). Il realismo estetico si rovescia così in un totale irrealismo politico. Un ulteriore slittamento mitizzante si avrà in un secondo momento quando Levi parte dal mondo contadino lucano ed arriva a tutte le Lucanie della Terra, cioè ad una versione poetica e romantica del terzomondismo, ma non per questo meno discutibile. Il mondo contadino possiede, per Levi, valenze rigenerative e viene posto in conflitto ed in alternativa alla cultura urbana, industriale, borghese e tecnologica, con il progresso tout court. L’atemporale mondo dei contadini viene giocato come un elemento catartico per il ritorno ad uno stato iniziale di autenticità, denso di echi rousseauiani, i quali, però, già negli anni ’30 appaiono fuori tempo massimo. Levi, tuttavia, non fu mai chiaro quando si trattò di dare un senso di marcia preciso ed inequivocabile alla sua concezione del mondo contadino ed alla sua opposizione alla modernità. E’ noto, ed anche la De Donato lo ribadisce dal canto suo, che il senso filosofico (e politico) del levismo (inteso qui soprattutto come l’opera leviana) è ambiguo (la studiosa barese preferisce dire “ambivalente”) e lo sarà fino alla fine dell’itinerario umano ed artistico di Carlo Levi cioè fino a “Quaderno a cancelli”, l’ultima opera scritta prima della sua morte, avvenuta nel 1975. Si è dibattuto per anni, fino alla nausea, sulla questione del segno da attribuire all’opera di Levi. Ci si è chiesto per anni se Levi fosse, oppure no, un reazionario, un passatista, un decadente. Anche se convenissi con l’autrice del libro sull’opinione che Levi non lo fosse, i termini della “querelle” non cambierebbero di una virgola; l’ambivalenza di fondo esiste e la stessa De Donato la definisce in termini esatti, esattamente come un bifrontismo ideologico, bilanciato sulla divaricazione tra una tendenza alla mitica foresta delle origini e la tendenza verso il viaggio.

“Vale a dire, la selva come simbolo doppio; da un lato, di forte attrazione verso l’indifferenziato primordiale, natura atemporale e astorica, sonno prenatale, oscurità protettrice, fuori da ogni determinazione che fatalmente si specifica come mutilazione, servitù, perdita irrevocabile; dall’altro lato, di necessario richiamo al Regno delle Madri come termine fisso di ogni possibile ripresa di nuovi momenti di individuazione. In altri termini, si tratta di una permanente alternativa tra speranza e rinuncia, tra vita come impulso ed energia creatrice e vita come rientro nella passività assoluta, nella infinita passività, su cui si regge tutto il suo sistema di idee e di immagini”.

La mitizzazione del mondo contadino agisce in due sensi opposti; verso il passato atemporale ed arcaico, da un lato, e verso il futuro, verso la rigenerazione e verso l’inizio di un mondo nuovo, verso l’avvento di un uomo nuovo, dall’altro. Tale opposizione, ben lungi dal poter essere definita dialettica, come alcuni critici di Levi hanno creduto (e mi sembra che anche la De Donato avalli questo dato inesistente), all’interno dell’opera di Levi permane senza mai trovare un punto di svolta definitivo, di sintesi, di risoluzione, anche negativa nel senso che non diventa mai neppure una ‘dialettica negativa’ alla Adorno. A questo punto un momento di confronto tra Adorno, uno dei filosofi più insigni del 1900 ed uno dei critici più importanti della modernità nella storia della filosofia contemporanea,  e Levi non si può più eludere. Pur a voler prescindere dalle differenze strutturali fra i due pensieri (quello di Levi, che, nella sua veste migliore, si può definire poetico e quello di Adorno che è filosofico), la differenza di contenuto risiede, innanzitutto, nel modo di intendere l’arcaico. Per Levi, all’arcaico si può tendere con uno slancio volontaristico. Per Levi, l’arcaico è puro, incontaminato, indifferenziato. Esso può rigenerare, tramite il medium del protagonismo contadino, il mondo guastato dalla civiltà e dalla modernità. Per Adorno, invece, l’arcaico non è indifferenziato, ma contiene già dentro di sé gli elementi embrionali dell’illuminismo, motivo già di per sé sufficiente a far cadere sotto il sospetto di ingenuità le concezioni arcaicizzanti e primigenie, sia nella loro versione reazionaria (il riferimento è qui alla demolizione puntuale ed impietosa di Adorno ai danni della filosofia di Heidegger), sia nella loro versione progressista, se così si può dire non senza contraddizioni (Rousseau ed i suoi derivati e tra questi metto, appunto, Levi). Di conseguenza, per tornare al discorso circa il contenuto sociale di verità dell’opera di Levi, sulla modernità e contro di essa si possono dire ( e sono state dette) una valanga di cose (tutta la grande filosofia degli ultimi cinquant’anni, fino agli ultimi sviluppi del Postmoderno non ha fatto altro che riconsiderare criticamente la modernità nel tentativo, possibile o meno, di superarla) al punto tale che schierarsi contro la modernità è diventato ormai uno sport di massa, una pratica oltretutto facile e senza rischi di ritorsioni (un po’ come sparare sulla Croce Rossa), ma, soprattutto, e questa è la cosa peggiore, uno sport che sembra alla portata di tutti; impiegati-poeti e massaie che frequentano i corsi delle Università della Terza Età, pastorelli traviati e distratti dalle loro, socialmente utili, occupazioni agresti o professori di scuola media aspiranti narratori nei week-end. Il levismo, purtroppo, come dirò meglio più avanti, ha offerto ed offre vastissime sponde, anche nel suo modo di contestare la modernità, alle orge di dilettantismo culturale  di cui, in Lucania, siamo stati e siamo quotidianamente spettatori; in tal modo, il nucleo originario di verità artistica e sociale dell’opera di Carlo Levi si rovescia in falsità sociale totale, in ideologia regressiva. Da Levi al levismo, il passo è breve. Accettare di prestarsi ad una critica della modernità ispirata ai canoni del levismo è pericoloso e rischioso proprio ai fini di una critica aggiornata e puntuale della modernità  stessa. Se poi dai cieli stellati della filosofia scendiamo di qualche piano in direzione della realtà empirica e dell’attualità sociale, la situazione non migliora, ma, forse, peggiora pure. Se l’opera letteraria (il “Cristo…”) di Levi possedeva degli elementi notevoli di verità sociale ai tempi del confino di Levi ad Aliano e poi ai tempi della pubblicazione del romanzo e ne possiede tuttora (si pensi, ad esempio, al Levi autonomista, debitore nei confronti dell’autonomismo azionista e meridionalista di Guido Dorso), se a Levi noi lucani, nessuno escluso, dobbiamo gratitudine per il suo amore verso la nostra terra, per le sue denunce (artistiche e non) delle spaventose condizioni di arretratezza della Lucania, per aver dato alla nostra regione una notorietà mondiale e per altre cose ancora che non starò qui a ricordare, è, però, pur vero che il levismo, inteso come l’insieme convergente degli effetti enfatici e retorici, degli effetti mitizzanti contenuti nell’opera di Levi (e non solo in quella) e moltiplicato per le strumentalizzazioni ideologiche, per le forzature politiche e non politiche dei “levisti” ha prodotto una lamentosa e narcisistica mistica della povertà e della nobile miseria, ciò che alcuni chiamano il “pianto leviano” o “pianto levista”, il quale ha avuto, e purtroppo continua ad avere, esiti letali per il riscatto che veramente serve alla Lucania. E’ vero che non c’è stata la rivoluzione contadina  (forse, non la volevano nemmeno i contadini lucani), ma non c’è stato (ed in larga parte non c’è ancora) neanche quel trionfo della modernità industriale e capitalistica che Levi temeva ed aborriva. La classe contadina si è dispersa in tante direzioni; chi è emigrato in Belgio o in Germania, chi è andato a Torino alla Fiat, chi si è arruolato nei carabinieri o nella polizia o si è, più furbamente, infrattato in uno qualsiasi dei mille meandri di una amministrazione pubblica ipertrofica e parassitaria a Potenza e a Matera. Qualcuno, per fortuna, si è anche rimboccato le maniche e si è messo a fare, da solo o in cooperativa, impresa agricola moderna con buoni risultati. In ogni caso, l’unità culturale del mondo contadino si è frantumata, l’autonomia contadina è restato sempre un concetto vago, la rivoluzione contadina non si è vista (se non al cinema nei film che narravano l’epopea messicana di Emiliano Zapata) e l’utopia leviana è fallita in pieno. Non per questo, però, ha trionfato la cultura urbana, la cultura dei saperi ‘alti’ e specialistici, la cultura industriale, l’impresa intesa anche come ricchezza di tutta la società, il capitalismo, la cultura borghese in senso alto che in Lucania non era proprio del tutto assente, come i nomi di Fortunato, Nitti e di D’Errico stanno a testimoniare. No, niente di tutto questo, purtroppo. A livello della struttura politico-sociale si è visto il solito Stato paternalista, clientelare e burocratico il cui potere di corruzione delle coscienze (e non solo delle coscienze) Levi già conosceva bene, mentre a livello culturale si è assistito alla carica dei nuovi Don Luigini (anche di estrazione contadina) sotto forma di impiegati statali e parastatali con vaghe ambizioni culturali, diventati tutti levisti. Rimasticando il leit-motiv del mondo contadino, nel frattempo, diventato in questa marginale regione modello culturale unico e superiore,  i piccoli borghesi investitisi di un ruolo intellettuale nel nome del povero “don Carlo” si sono dati un tono da intellettuali, sebbene di provincia, anche grazie alla relativa tranquillità personale loro offerta proprio da quella farsa di modernizzazione capitalistica e statalistica che abbiamo avuto nel secondo dopoguerra. Costoro hanno segnato una nuova tappa dell’eterno trasformismo meridionale, la mala pianta che alligna in un territorio dove non si svolge mai una autentica trasformazione delle coscienze e, quindi, anche delle strutture sociali. Avvinghiato saldamente ai rubinetti statali, dell’impiego pubblico statale, i “levisti” sono riusciti, paradossalmente, ad essere anche antileviani nel nome di “don Carlo Levi”. Il tradimento “statalista” dei leviani, tuttavia, non può farci dimenticare che le simpatie per l’immobilità e, quindi, per la passività sono già contenute nella mistica estetizzante di Carlo Levi. Sarebbe anche interessante cercare di stabilire quanto di questo senso atemporale della passività sia espressione, nel romanzo non-romanzo di Levi, della millenaria anima lucana e quanto ancora di questa passività si sia riversata nelle generazioni lucane del dopo “Cristo si è fermato ad Eboli” e nella loro formazione culturale giungendo così a costituire quella che si potrebbe definire una “ideologia lucana”, anzi, “l’ideologia lucana”. L’atavica passività lucana non è stata rafforzata dai valori esaltati dal libro di Levi?

In ogni caso, e vengo ad un discorso meridionalista valido per l’oggi, questa regione ha bisogno di scoprire o, forse, di riscoprire altri valori. Ben altri sono i bisogni del presente. Essi indicano una via di marcia esattamente opposta a quella contenuta nel levismo. In una Lucania che sembra già di per sé destinata a parco naturale, a riserva indiana, a colonia, la passività non può più essere di casa. Se ciò è vero, è altrettanto vero che in questa regione si sta andando verso un serio conflitto culturale interno. Le recenti vicende che hanno coinvolto anche il cardinal Giordano costituiscono un esempio che anticipa e rivela uno scontro culturale interno alla società lucana di oggi, scontro che, forse, sta venendo fuori dal suo lungo periodo di latenza. Le domande che il meridionalismo di oggi (se ancora di meridionalismo vogliamo parlare) si deve porre sono altre; non se la Lucania debba sperimentare, o meno, la rivoluzione contadina, non se bisogna sconfiggere o limitare l’elemento borghese, se si debba promuovere o meno uno sviluppo industriale, ma che tipo di borghesia debba prendere il sopravvento, che tipo di sviluppo industriale promuovere ‘in loco’ e così via.

C’è, infine, un aspetto della questione a cui sarà il caso di dedicare ulteriori approfondimenti. Se il levismo non ha mancato di avere riflessi dannosi sul dibattito meridionalista, sull’azione di sviluppo delle strutture economico-sociali, i suoi effetti all’interno della cultura lucana e sulla ‘forma mentis’ degli intellettuali lucani (sia di quelli residenti nella regione, sia di quelli della diaspora) sono stati, e non è un esagerazione dirlo, caso mai un eufemismo, davvero regressivi. I veri problemi in questo contesto non sono quelli ermeneutici deducibili dall’opera di Levi, ma le tipologie esistenti nell’ambiente culturale lucano, il livello qualitativo degli intellettuali lucani, il livello qualitativo della produzione culturale,  il modo e la misura in cui la cultura prevalente in Lucania da decenni ha influenzato non solo gli intellettuali, ma la classe dirigente, specialmente il ceto politico.

Non si può più, per quieto vivere o per carità di patria (anzi, per carità di “piccola patria”), far finta di ignorare l’evidenza; il levismo ha offerto molti alibi al provincialismo ed al dilettantismo di un numero davvero ingente di intellettuali lucani. Il piccolo burocrate statale, il nuovo ‘Don Luigino’ che nelle ore post-prandiali ha cercato di autopromuoversi ad intellettuale, ha trovato nel levismo un pass-partout ideale, tale da permettergli di produrre tanto fumo inoffensivo con poca fatica ed ancor meno talento. Con il levismo, purtroppo, una fauna molto prolifica del sottobosco culturale lucano ha rotto le barriere di recinzione provocando danni enormi, probabilmente irreparabili. Si capisce bene perché il tipico intellettuale levista è, professionalmente parlando, indefinibile. Per farla breve, non si deve mai capire bene chi è e che mestiere intellettuale fa (oltre a quello svolto di mattina in qualche ufficio statale o regionale qualsiasi). L’intellettuale levista è, quindi, in genere, un poeta o un sedicente tale, un narratore (o sedicente tale). Più raramente un saggista perché in quel ramo è già un pochino più difficile bluffare e vivere di rendita intellettuale, se così si può dire in Lucania, tutta la vita. Però, l’intellettuale lucano levista può essere anche tutte queste figure messe assieme. Può racchiudere in sé o, quasi sempre, credere di poter racchiudere in sé moltissimi saperi dello scibile umano; un po’ sociologo, un po’ antropologo, un po’ storico di cose locali, un po’ sociologo, un po’ economista, un po’ poeta o filologo di poeti, un po’ critico letterario e via dicendo. In nome del povero “don Carlo” tutto si può ed anche in Lucania tutto si può. Insomma, all’intellettuale levista lucano (sarebbe a dire; all’ottanta per cento del ceto ‘pensante’ della Lucania) va bene tutto, proprio come a quei cottimisti extracomunitari disposti ad ogni genere di lavoro, quelli che la mattina aspettano il ‘padroncino’ che vuole fare la palazzina al risparmio o la raccolta dei pomodori con quattro spiccioli. Per permettersi il loro, tutto sommato ben poco invidiabile, status intellettuale, i levisti hanno ridotto Carlo Levi ad una icona sacra, ad un santino. Parafrasando un grande rivoluzionario, neanche si può dire che il levismo sia la malattia infantile del provincialismo culturale. Più spesso, esso ne è la manifestazione senile nel senso che i levisti anziani sono, di solito, più mediocri ed astiosi dei loro più giovani discepoli. In ogni caso, giovani o anziani che siano, i levisti credono (e non sempre a torto, occorre dire) che la cultura, finanche in Lucania, alla fin fine offra delle rendite e dei posti al sole. Non parlo necessariamente di rendite intellettuali nel senso specifico del termine, ma anche, se non soprattutto, di rendite burocratiche che vengono offerte dai feudatari della politica regionale proprio in cambio di servizi intellettuali o para-intellettuali o pseudo-intellettuali. Questa, diciamolo francamente, è la via più praticata per cui la ricerca di uno status di intellettuale locale si rivela tanto comoda e protetta quanto illusoria, anche per altri motivi che non starò qui a ricordare. Tutto ciò non ha nulla a che fare con una ricerca culturale autentica, con l’autentica missione culturale e civile dell’intellettuale, fosse anche un intellettuale in scala minore e locale. I levisti diventano quindi i bons servants dei nuovi ‘Don Luigini’ della politica locale, a loro volta, valvassori di “quelli di Roma”, di quelli cioè che il povero ed ingenuo loro Maestro, spesso più usato che sinceramente venerato, vedeva, ed a giusta ragione, come il fumo negli occhi.

PINO A. QUARTANA

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