QUANDO IN UNA FREDDA NOTTE POTENTINA L’UNITA’ D’ITALIA RISCHIO’ LA FINE

 

Andrea era certo che non avrebbe potuto niente con questi uomini; solo seguirli, ma moderarli o guidarli no.

E così tornò ancora al muricciolo e guardò nel vuoto con una desolazione profonda. Tra poco, gli scoppi dei fucili, l’abbaiare dei cannoni, il primo urlo, la prima lingua di fiamma che sale, il primo massacro.

Quel vuoto lo attraeva stranamente, anche se non vi discerneva nulla, ombra su ombra; ma ci immaginava un brulicare d’uomini dentro un’attesa ansiosa quanto la sua e forse più.

Di lì sarebbe giunto il grido dell’assalto e l’impeto dell’ira. ”Dies irae dies illa…”

Ogni cosa orrenda pareva dover venire su da quella voragine, nella tenebra fredda, sotto il monotono scrosciar della pioggia. E ogni cosa aveva un senso, un viso, una voce. Ricordi e visioni e anche sentimenti e impulsi, impregnati della sua ira, come la natura è impregnata, macerata, d’umidità e di terrore. Andrea vedeva.

E sentì venire su un ansito ch’era come il respiro della bestia dell’Apocalisse, tutta ristretta in sé per lanciarsi sugli uomini. Uomini, donne, bambini e lacrime.

 

(dal romanzo di Carlo Alianello, “L’Eredità della Priora”)

 

 

Quale fu esattamente il contributo che Potenza dette al Risorgimento ed all’Unità d’Italia? La risposta a questa domanda dovrebbe essere già, e da molto tempo, chiara. Fu un contributo abbastanza rilevante, tanto è vero che, come sappiamo, Potenza è tra le 27 città e/o località che si sono rese meritevoli di una Medaglia d’Oro al Risorgimento. Fa parte dell’onoratissimo gruppo delle 27 città o località che hanno fatto il Risorgimento e che hanno maggiormente contribuito alla fondazione dello Stato italiano. La medaglia assegnata a Potenza è la n. 12 di 27. Suppongo che l’ordine con il quale furono assegnate non fu affatto casuale, ma seguiva una gerarchia di onori e di rilevanza storico-patriottica, basata su meriti veri, cioè basata sul sangue versato, sulle lotte, sul sacrificio e l’eroismo dei patrioti e delle popolazioni di quelle città. Non è affatto una illazione pensare che si trattò della dodicesima città italiana per l’importanza del contributo che dette all’Unità d’Italia e di ciò i potentini mai hanno smesso di essere orgogliosi di se stessi e della propria città. La questione dovrebbe esser chiusa non da 159 anni, non dal 1860, ma da 121 anni, cioè da quando Casa Savoia cominciò ad assegnare le prime medaglie. Da allora sono accadute tante cose ed ultimamente un partito come la Lega, non più marginale, ma oggi partito più importante d’Italia sta imponendo delle scelte che ricominciano a mettere in discussione l’effettiva unità del Paese. A questo punto, sia per questi motivi, sia per altri motivi più locali e regionali, Potenza dovrebbe riconsiderare l’entità del suo contributo di città risorgimentale e cara, come si diceva in tempi ben più patriottici, alla Patria. Prima di questa rivisitazione del rapporto fra Potenza ed il Risorgimento, non sarà tempo perso scavare più a fondo nella questione di quei grandi riconoscimenti storici assegnati in varie e successive fasi alle 27 città italiane Medaglie D’Oro al Risorgimento. Ad una attenta e dettagliata analisi dei loro gonfaloni e dei loro contributi alla Patria italiana emerge che la Medaglia d’Oro assegnata a Potenza (la n. 12 su 27, appunto) è l’unica che ricorda i moti del 1860, cioè dell’anno decisivo del Risorgimento, della spedizione dei Mille e dei plebisciti di annessione di tutti gli ex Stati e staterelli in cui l’Italia da secoli era divisa prima della rivoluzione liberale e risorgimentale. Per esempio, la prima città decorata, la città più importante delle 27 insignite delle onorificenze per le azioni ‘altamente patriottiche’ del Risorgimento, è Milano e la motivazione fu quella di “ricordare le azioni eroiche compiute dalla cittadinanza milanese nelle famose cinque giornate del 1848”, che tutti studiammo a scuola sin dalle elementari. Como deve la sua medaglia e la sua gloria patriottica alle giornate del 1848, Brescia, la Leonessa d’Italia, alle dieci giornate del 1849, Roma ebbe questi alti onori per ricordare le azioni eroiche compiute dalla cittadinanza e dalle truppe romane nella campagna del 1848 e nella difesa di Roma del 1849, perché ne fosse fregiato il Gonfalone Municipale a perenne ricordo degli eroici fatti e come attestato di gratitudine nazionale nella ricorrenza del Natale di Roma nel cinquantesimo anniversario della prima guerra di indipendenza”. Per Torino, forse la vera capitale del Risorgimento italiano, “fu disposta la coniazione di una medaglia d’oro per commemorare le benemerenze civili e politiche della cittadinanza torinese nei mirabili fatti che iniziarono e compirono l’opera gloriosa della libertà e dell’unità della Nazione, perché ne fosse fregiato il Gonfalone municipale a perenne memoria e come attestato di gratitudine nazionale nella ricorrenza del cinquantesimo anniversario dello Statuto”. A Palermo, “per commemorare le azioni eroiche della cittadinanza palermitana nei gloriosi fatti del 1848 che iniziarono il risorgimento nazionale e la conquista dell’Unità”. Identiche motivazioni per Catania e Messina, mentre per Perugia si trattò dei fatti del 1859 avvenuti il 20 giugno 1859, ad opera delle truppe pontificie. Le truppe dei reggimenti svizzeri inviate da papa Pio IX attaccarono i cittadini che si erano ribellati al dominio dello Stato della Chiesa procedendo all’occupazione della città, al saccheggio e al massacro di civili. Bologna conquistò la Medaglia d’Oro più importante dello Stato italiano a ricompensa del valore dimostrato dalla cittadinanza nell’episodio militare del giorno 8 agosto del 1848, che fu l’episodio più rilevante del Risorgimento bolognese. Il riferimento è alla battaglia dell’8 agosto 1848 contro gli austriaci. Quella battaglia sembra che sia stata scatenata da un incidente in una trattoria, dove un ufficiale austriaco era stato malmenato. Ciò fornì un pretesto al generale austriaco Welden, che distolse 7.000 uomini dall’assedio di Venezia e ordinò l’occupazione della città felsinea. La città, però, l’8 agosto 1848 si sollevò e gli austriaci dovettero abbandonarla. Alla rivolta parteciparono moltissimi popolani (fra cui i facchini del Borgo di San Pietro), e cittadini armati in maniera approssimativa; la battaglia ebbe come centro la Montagnola e la piazza antistante (poi chiamata Piazza VIII Agosto, dove sorge un monumento alla memoria dei caduti di quella giornata). Per tutta la giornata gli austriaci non riuscirono prevalere e a sera furono costretti a ripiegare, fuggendo dalla vicina Porta Galliera, l’ultima rimasta ancora nelle loro mani. La medaglia numero 11 fu assegnata a Mestre, allora comune autonomo da Venezia, “in ricompensa del valore dimostrato dalla cittadinanza alla presa del forte di Marghera la notte del 22 marzo 1848 e nella sortita di Marghera del 27 ottobre successivo”. Dopo la medaglia di Mestre viene quella di Potenza, ma vorrei concludere in ogni caso la carrellata delle altre città decorate e delle motivazioni a supporto delle decorazioni stesse. Casale Monferrato meritò la Medaglia in ricompensa del valore dimostrato dalla cittadinanza nell’assedio del 23, 24, 25 marzo 1849. L’episodio si riferisce alla difesa della città contro le truppe austriache del maresciallo von Wimpffen, che incalzavano i piemontesi dopo la sconfitta di Novara. Bergamo, la Città dei Mille di Garibaldi, si segnalò alla Patria riconoscente per i fatti del 1848. Nel marzo 1848, in contemporanea con le cinque giornate di Milano, oltre all’invio di aiuti a Milano, anche a Bergamo vi furono dei moti. La sera di venerdì 17 marzo, alcuni dimostranti si diressero verso il Sentierone fino alla caserma di Santa Marta (oggi presso la Torre dei Caduti), ma furono subito dispersi. La manifestazione si ripropose, più grande ancora, il giorno successivo, e la guarnigione austriaca dovette allontanarsi. In città arrivarono Garibaldi per prepararne le difese, e Mazzini che tenne un discorso in Piazza della Legna (piazza Pontida). Tornarono però anche gli austriaci in numero maggiore: i patrioti bergamaschi dovettero rifugiarsi in Svizzera, coloro che rimasero furono fatti prigionieri e giustiziati nel cortile della Rocca o alla Fara. Man mano che ci si avvicina verso le ultime decorate, anche in ordine di tempo perché i conferimenti avvennero per fasi successive, l’importanza dei fatti patriottici va oggettivamente scemando e perdendo la sua componente epica, come nel caso della città ultima decorata, la città numero 27, Piacenza, che meritò la medaglia e la fama di Primogenita perché fu la prima città italiana a votare l’annessione, nel 1848. Tornando a Potenza, si nota, con un certo interesse e con una certa curiosità, che è l’unica tra le 27 città Benemerite del Risorgimento italiano ad essere stata insignita del più glorioso riconoscimento italiano, quello riferito alla fondazione dello Stato unitario italiano, per i fatti del 1860, cioè relativi proprio all’anno dell’Unità d’Italia (anche se poi lo Stato italiano nacque ufficialmente nel marzo del 1861). Tutte le altre importanti e nobili città italiane si sono distinte per fatti accaduti nel 1848, nel 1849, nel 1859, una, Gorizia, addirittura per fatti della Prima Guerra Mondiale, ma nessuna per i fatti dell’anno decisivo per il Risorgimento. Solo Potenza per i fatti del 1860. Ma, e qui vengo al discorso che voglio portare avanti, Potenza non diede il suo grande contributo al Risorgimento ed alla Unità d’Italia solo nel 1860. La maggioranza delle città italiane decorate, come abbiamo appena visto, dette gloria al suo gonfalone risorgimentale nel 1848. Anche Potenza avrebbe meritato un riconoscimento per i fatti del 1848, che a Potenza ci furono e che furono rilevanti. In quell’anno, Potenza svetta tra le città meridionali per il suo ruolo politico di propulsione liberale e unitaria. Il 1848 potentino fu l’anno in cui i patrioti potentini organizzano a Potenza una Dieta di diverse province meridionali. I delegati arrivarono a Potenza e fu stilato un Memorandum. I Borboni a quel punto decisero di reagire con estrema durezza al Memorandum con persecuzioni poliziesche e giudiziarie. Non persecuzioni come si videro anche in tante altre città. I numeri di quella stretta repressiva furono impressionanti se riferiti anche alla esiguità della popolazione potentina del 1848, che a stento arrivava a 16.000 abitanti. Le carceri cittadine si riempirono fino all’inverosimile di detenuti. I processi si protrassero per anni, schiantando il tessuto sociale della città. Il bilancio finale parlò di 1.116 incarcerati, saliti poi a 1.609. Penso che Potenza avrebbe meritato una seconda Medaglia d’Oro al Risorgimento per i fatti del 1848, ma di medaglie non se ne possono dare più di una per città e quindi pazienza. Poi, ci fu anche un terzo momento in cui Potenza fu ancora importante, anzi estremamente importante, per il Risorgimento e per l’Unità d’Italia ed è un momento che non è mai stato né approfondito, né messo in evidenza, né, tanto meno ancora, valutato nella sua giusta e (grande, grandissima) rilevanza storica. Fu un momento forse meno epico ma ancor più tragico di quelli che si erano svolti solo pochi anni e pochi mesi prima dei fatti che sto per raccontare. I fatti di cui voglio parlare e che voglio una buona volta finalmente approfondire sono quelli che si svolgono tra il 15 ed il 16 novembre del 1861, ad Unità d’Italia ormai compiuta. Mentre le altre città decorate al Risorgimento potevano finalmente pensare solo a godersi il fatto di essere parte del tanto agognato Stato nazionale italiano e a godersi anche i frutti di questa grande opportunità, ce n’era una di esse, una soltanto che, invece, doveva far fronte ancora a gravi pericoli: Potenza. I pericoli che l’unica città medaglia d’oro al Risorgimento nel Mezzogiorno continentale doveva affrontare erano quelli del grande brigantaggio meridionale e soprattutto del brigantaggio nato in Basilicata, regione che Potenza rappresentava al massimo livello non solo come città del Risorgimento ma anche come capoluogo regionale (allora si diceva ‘capitale provinciale’). Il brigantaggio meridionale cominciava a rappresentare per il nuovo Stato unitario uno dei più gravi problemi, se non proprio il più grave, e proprio la Basilicata ne era l’epicentro. Nel novembre del 1861 la situazione sembrava sul punto di sfuggire dalle mani del governo di Torino e si faceva sempre più grave di giorno in giorno. Bande di briganti uscivano fuori da tutte le parti, da ogni provincia, da ogni paese e circondario e, nonostante l’invio continuo di truppe, i militari italiani non riuscivano più a controllare il territorio. Nei circoli di Torino, anche in quelli più vicini alla Monarchia Sabauda, cominciavano a circolare discorsi mai prima sentiti. Discorsi che parlavano di rinuncia all’Unità, almeno per le terre dell’appena disciolto Regno di Napoli. Tra i politici più influenti a Torino c’era Massimo D’Azeglio, che tra il 1849 ed il 1852 era stato Primo Ministro del Regno di Sardegna. In una lettera all’amico senatore Matteucci, D’Azeglio non esitò a candidarsi a capo della corrente politica e di opinione che sollecitava la Monarchia a disfarsi delle regioni meridionali appena acquisite e di rinunciare all’unione con esse, determinando quindi l’immediata fine dell’Unità d’Italia raggiunta da soli pochi mesi. A Napoli noi abbiamo altresì cacciato il sovrano per istabilire un Governo fondato sul consenso universale. Ma ci vogliono, e sembra ciò non basti, per contenere, il regno, sessanta battaglioni, ed è notorio che, briganti e non briganti, niuno vuole saperne. Ma si dirà: e il suffragio universale? Io non so nulla di sufragio; ma so che al di qua del Tronto non sono necessari battaglioni, e che al di là sono necessari. Dunque vi fu qualche errore; e bisogna cangiare atti o principi. Bisogna sapere dai Napoletani, un’altra volta per tutte, se ci vogliono si o no. Capisco che gli Italiani hanno diritto di fare la guerra a coloro che volessero mantenere i tedeschi in Italia; ma gli Italiani, che restando Italiani non volessero unirsi a noi: credo che noi non abbiamo il diritto di dare delle archibugiate; salvo che si concedesse che, per tagliar corto, noi adottiamo il principio in cui come Bomba bombardava Palermo, Messina ecc. ecc.”. Insomma, Unità sì, ma non a tutti i costi e visto quel che succedeva al Sud le posizioni di D’Azeglio conquistavano sempre più consensi. La stessa Monarchia cominciava a prenderle in seria considerazione. Come si dice oggi in gergo politico, Torino cominciava a immaginare un suo piano B, che prevedeva la rinuncia unilaterale all’annessione. Il governo di Torino cominciava segretamente ad immaginare quindi uno Stato italiano non unitario ed i cui confini meridionali si sarebbero fissati poco più giù di Roma. E’ facile immaginare cosa sia passato in quei momenti non solo per la testa del Re e del D’Azeglio, ma anche per la testa del settentrionale medio. Dalla parte dei briganti, invece, l’entusiasmo cresceva sempre più. Nella prima fase del brigantaggio, la fase politica, i briganti sapevano di avere consensi crescenti tra la popolazione e sapevano anche di avere l’appoggio concreto della deposta monarchia che dirigeva le operazioni da Roma. E non solo della deposta monarchia. In Basilicata la situazione era ancor più tragica. Interi paesi si sollevavano e seguivano Crocco e successivamente Crocco e Borjes, un militare inviato dalla corte borbonica in esilio a Roma nella speranza di reimpadronirsi dei territori dell’ex Regno di Napoli. Sempre più difficile diventava quindi, man mano che passavano i mesi del 1861, la situazione del nuovo Stato unitario al Sud e particolarmente in Basilicata e man mano diventava sempre più difficile anche la situazione di Potenza, ormai in fase di crescente isolamento all’interno della Basilicata. Ad un certo punto, verso ottobre-novembre del 1861, Crocco e Borjes, soprattutto il secondo, decisero che fosse venuto il momento di stringere i tempi per attuare il disegno politico-militare più ambizioso dell’insorgenza legittimista-brigantesca meridionale; conquistare Potenza, la roccaforte sabauda e risorgimentale. La conquista di Potenza era prevista per la notte del 16 novembre del 1861. Del grande sogno dei briganti parla Carlo Alianello nel romanzo “L’eredità della Priora”. A Potenza si era sparsa la notizia che l’esercito brigantesco era stato sconfitto e la gente già si abbandonava alla gioia ed alle feste, quando in ora già tarda i potentini videro entrare in città un uomo a cavallo dall’aria sconvolta ed allarmata. Riprendo il racconto con le parole precise usate da Alianello: È il capitano Pomarici della Guardia Nazionale di Vaglio, sfuggito per miracolo ai briganti. Ora l’uomo narra, smozzicando le parole: nessuna vittoria, nessuno scontro tra l’esercito regolare e i reazionari, ché anzi Crocco, dopo aver espugnato e messo a sacco Vaglio, per sviare la famosa colonna che gli sta sempre dietro e non lo raggiunge mai, s’è accampato coi suoi partigiani a un miglio da Potenza, a valle, sotto Betlemme, pronto ad assalire. Il nemico è alle porte. La notizia della disfatta borbonica a Garaguso è falsa; fu un’astuzia di Borjes, per sorprendere la città satolla di gioia e di sicurezza, nel sonno. La banda della Guardia Nazionale aveva sospesa la sua serenata sotto la pioggia che scrosciava sempre più forte e spegneva le fiaccole una dopo l’altra. Solo qualche torcia fiammeggiava. Facce livide sotto i cappelli a tuba, schiene troppo rigide o incurvate d’un tratto, occhi duri o smarriti e timorosi. Il generale Chabet che era al fianco del prefetto, alzò la voce: “Tromba, suona l’allarme! E i tamburi battano la generale! Le note lunghe e lamentose della tromba stridettero da un capo all’altro della città, mentre la pioggia infittiva, e subito rombò il rullar dei tamburi, tutt’insieme, lugubre e assordante”. A quel punto la città passò dalla gioia al dramma, alla paura. Passato lo sgomento deii primi momenti di stupore, si passò alla organizzazione della resistenza. Prendo ancora a prestito le parole di Alianello: Subito il presidio e la Guardia Nazionale furono sotto le armi e la città fu desta. La parola non si presta a descrivere le impressioni di quella notte in cui, tra lo strepito della pioggia continua e dirotta, si udiva qua e là il sollecito e affannoso picchiare alle porte, il passo frettoloso e cadenzato dei soldati, il rumoroso passaggio dei due cannoni da porta Salsa al muro di S. Carlo, gli ordini, gli avvertimenti degli uffiziali, il frequente chi va là delle sentinelle ai posti di guardia e in altri luoghi della città. Il prefetto de Rolland e il generale Chabet stavano nel corpo di guardia in piazza Sedile a dare gli ordini e ad animare ogni persona, aspettando da un momento all’altro l’annunzio dell’approssimarsi delle bande. Il prefetto de Rolland, aggirandosi tra la gente armata che era nel corpo di guardia, pareva che con occhi ansiosi cercasse qualcuno, quando d’un tratto preoccupato disse: ‘E come non veggo qui i preti, stimati così bravi patriotti e cittadini?’ Molti di quegli armati che gli stavano vicini risposero a una voce: ‘Signor prefetto, siamo qui!’ Infatti erano preti in abito borghese che stavano lì pronti a difendere con gli altri la propria patria e la libertà. Rolland si felicitò con loro”. Mi vengono in soccorso ora le parole di Raffaele Riviello tratte dalla Cronaca potentina, uno dei grandi libri di storia potentina. “La forza militare e quella cittadina fu appostata nei luoghi più adatti. A porta Salsa v’erano le guardie nazionali, le guardie mobili e i soldati; in piazza Prefettura fu situato il maggior nerbo della milizia regolare, in piazza Sedile soltanto guardia nazionale e sulle mura di cinta dell’ospedale di S. Carlo, gli ungheresi con i due cannoni. Si dispose che tutti gli altri cittadini non obbligati alle armi si difendessero nelle loro case”. Alianello: Schiarì invece l’alba ché ancora non s’era udito un colpo di fucile; dalla vallata non giungeva voce d’uomini o rumore d’armati alle truppe ammassate sulle mura o alle porte della città. Il mattino spuntava in un grigio incubo di nubi e di piovaschi e nulla si vide; in basso, giù per il declivio, tutto rimaneva immobile tra i rami già sfrondati degli alberi, le stoppie bagnate e la terra nera. Allora la pioggia cessò e tra la nebbia leggera presero corpo alte e dense colonne di fumo che si levavano dal vicino paese di Vaglio. Uomini venivano di corsa alla gran guardia, entravano nell’androne e subito ne uscivano con un gran strepito di sciabole e di speroni”. Potenza attese per tutta la notte l’assalto dei briganti, pronta a far fuoco, a difendersi con tutte le sue forze e con tutta la imponente forza militare di cui disponeva, ma con sua grande sorpresa arrivarono le prime luci dell’alba senza che un solo rumore dei briganti si levò nell’aria. Cosa era accaduto? I briganti rinunciarono al loro grande sogno politico e militare; assaltare e conquistare Potenza. Perché? Risponderò con le parole del più importante portale internet neoborbonico, il Portale del Sud:  Una specie d’intesa venne per intanto raggiunta ma, è il caso di dire, il rattoppato accordo si deteriorò del tutto allorché il Borjés dové registrare l’inspiegabile rinuncia del Crocco a conquistare l’importante città di Potenza. Il brigante, infatti, giunto dopo una faticosa avanzata che aveva duramente impegnato l’esercito sabaudo (valga per tutti la cruenta battaglia dell’Acinella), il 16 novembre 1861 ai piedi della città, fece suonare, nel pomeriggio di quel giorno tanto atteso, improvvisamente la ritirata e, invece di assalire il capoluogo lucano, ripiegò con mossa discutibile su Pietragalla. Un errore strategico che comprometterà definitivamente le già limitate speranze di restaurazione del trono borbonico”. Quindi, non esagerano i neoborbonici quando asseriscono che “Il perché di quest’assurda ritirata rimane uno dei misteri della Storia”. Questa è storia d’Italia, ma il fatto strano è che nessuno ne ha mai parlato se si eccettuano questi sparuti neoborbonici, lo stesso scrittore Alianello e rarissimi altri. E mistero della Storia è rimasto. Alianello attribuisce il mancato assalto a Potenza ad un calcolo cinico di Crocco i cui interessi erano quelli di ricavare quanto più possibile dalla sua attività di brigante senza mettersi in storie più grandi di lui. Secondo Alianello, Crocco non volle mai dire la verità su quel mistero della Storia per non compromettere anche ad anni di distanza, quando era in prigione già da diversi anni e con la prospettiva certa dell’ergastolo, certi misteriosi suoi complici di quella grande impresa, che, se fosse andata in porto, avrebbe scosso l’Italia e l’Europa. La tesi portata avanti nell’Eredità della Priora è che Crocco contasse per la conquista della città capoluogo sull’appoggio di alcuni traditori della città, che avevano già tradito il Borbone per l’Italia e che, secondo le memorie scritte di Crocco, quel fatale giorno del 16 novembre del 1861 si apprestavano a tradire di nuovo, cioè a tradire l’Italia per far entrare in città le truppe brigantesche. Crocco fece capire chiaramente nel suo Diario che all’ultimo momento quel personaggio sconosciuto e misterioso di cui nessuno mai osò fare il nome cambiò ancora una volta di campo e ripassò con l’Italia. Ma questa non è verità storica accertata. E’ solo una tesi. E’ assodata invece la convinzione di Alianello quando scrive che In ogni modo, con questo finale giallo si concluse una vicenda che minacciava di portare seri strappi all’unità d’Italia, e Crocco il bandito, il reietto, Crocco il bestiale, ne fu l’eroe. Felicemente e con la buona salute. Però a Potenza le acque, in superficie, non fecero spuma o fragore d’onda, e nessuno ne seppe niente”. E’ anche la mia convinzione; se Potenza fosse caduta, non so davvero se l’Italia unita sarebbe sopravvissuta. Ci torno fra un attimo. Vista l’importanza dei fatti, la cosa più incredibile non è solo il mistero su quei fatti o il fatto che una verità ufficiale e provata su quei fatti non sia mai venuta fuori, ma che quegli avvenimenti storici siano stati coperti dall’oblio, che della loro importanza per il destino unitario italiano non se ne sia mai parlato in 158 anni, che nessuno ne abbia mai parlato, salvo rarissime, veramente rarissime eccezioni. Non meno misterioso ed incredibile è poi il fatto che nemmeno Borjes ne abbia mai parlato. Non ne ha mai parlato o non volle mai parlarne? A sentire Alianello, la seconda ipotesi è quella più fondata. “Del mancato assalto di Potenza, nulla; ma c’è l’accusa di tradimento contro Crocco, non messa lì a caso, insieme all’accenno della mancata obbedienza e dell’indisciplina voluta, anzi ostentata”. Ed ancor più chiaramente: “Ma avevano davvero i reazionari l’intenzione di conquistare il capoluogo della regione? Il Borjes nel suo diario non ne fa parola; ma il vecchio cabecilla non era uomo da tenersi addosso documenti tanto gelosi o narrare fatti che potessero compromettere troppa gente e rendere così impossibile una ripresa della lotta in migliori condizioni, casomai avessero da cadere in mani indiscrete”. Alianello era convinto che il mancato assalto a Potenza fosse una cosa che dipendesse solo dalla volontà del Dio dei briganti alias Carmine Crocco: Nessuno, a quanto so, s’è mai domandato perché quella notte Potenza non fu assalita, anche se la sorpresa poteva dirsi sfumata. La truppa che la difendeva era poca e, nonostante che i piemontesi avessero messo a difesa i luoghi consueti d’accesso, la città era praticamente aperta da ogni parte dagli orti e dalle vigne in pendio, attraverso le casupole dei contadini e lungo le ripidissime erte. D’altra parte, se anche qui come in tanti altri paesi della Basilicata, e furono quasi tutti, la plebe armata a modo suo fosse uscita dai tuguri per ingrossar le file dei partigiani prendendo la truppa alle spalle, se si fosse mescolata alla milizia soverchiandone le deboli resistenze e traendola dalla sua parte, giacché le guardie nazionali si preoccupavano di più di salvare la famiglia e la roba che dei sacri destini di questa patria nuova, se ogni vicolo avesse vomitato donne e uomini frenetici di furore, con accette e spranghe e rossi tizzoni per assalire e mettere a fuoco le case dei signori, era dubbio che il presidio avrebbe potuto resistere”. Ma poi entra in palese contraddizione con se stesso: “Dunque, Borjes era ben deciso di fare questo colpo; perché non osò? Le ragioni che enumera Crocco, tradimento, scoperta delle armi, uccisione dei complici, non sono valide perché tutti questi fatti, nessuno escluso, avvennero dopo il 16 novembre; effetti casomai, non cause. Quella sera il comandante la piazza di Potenza era sicuro che il nemico fosse lontano, verso la costa jonica, e per di più sconfitto”. Insomma, la sua narrazione va a farsi benedire e quindi forse non si trattò di tradimento subito dal Crocco. Non è stata presa in considerazione l’ipotesi che il Crocco si sia inventato un tradimento ai suoi danni da parte del notabile potentino misterioso per mascherare un tradimento reale; il tradimento di Crocco ai danni del Borjes. Con tutto il rispetto per l’Alianello scrittore, meno per l’Alianello ideologo, mi sembrano francamente più interessanti le considerazioni del portale neoborbonico già citato: L’amara vicenda determinò, in chi comprendeva l’importanza di Potenza, come il Borjés, un tremendo sconforto per la consapevolezza di aver perso l’unica occasione veramente utile per vincere. Non occorreva essere grandi strateghi per capire che, se l’“affondo” su Potenza fosse stato sferrato al momento opportuno e nei termini del progetto lungamente predisposto, difficilmente i Savoia sarebbero sfuggiti ad una disfatta che avrebbe posto serie ipoteche sul loro regno. Essi vinsero, invece, quando stavano proprio per perdere. Fallita, o meglio non conquistata, Potenza, anche l’impresa del Borjés ebbe tragicamente termine dopo poco”. Quindi, anche per questa voce la caduta di Potenza avrebbe significato quasi sicuramente la fine della appena raggiunta unità d’Italia. Nei neoborbonici riemerge un antico rimpianto, soprattutto il rimpianto della prima fase del brigantaggio, il grande brigantaggio che era in stretta osmosi con la causa legittimista e borbonica. Era, nella loro visione, il brigantaggio al servizio della causa borbonica e legittimista. Della alleanza tra il trono e l’altare, quindi cose che andavano ben oltre le rivolte dei zappaterra. L’ultima occasione per vincere significa l’ultima occasione per i Borboni di vincere. L’ultima occasione per le potenze europee nemiche dell’Unità d’Italia per vincere. E quell’ultima occasione passò per Potenza. Mettendo da parte il lato ideologico, questo è il dato storico incredibilmente rimosso o non considerato da tutti o quasi tutti in 160 anni di storia. Un dato tanto importante quanto incredibilmente rimosso. Le ragioni del mancato assalto e della mancata conquista di Potenza addotte da Alianello non solo sono in intima contraddizione, ma, partendo dal fatto che la verità certa dei fatti non l’avremo più, non sono nemmeno il Vangelo. Da parte di uno storico lucano con impostazione del tutto opposta, uno storico tra i più apprezzati del secondo dopoguerra, i motivi del mancato assalto a Potenza sono molto più logici e molto meno misteriosi e romanzati. Ho sottoscritto già da tempo una versione dei fatti come quella di Raffaele Giura Longo che scrive: “La città divenne quasi un unico acquartieramento: ora vi era anche la Cavalleria Ungherese, insieme ai lancieri, ai bersaglieri, ai granatieri, a reparti di fanteria, alle forze di polizia ed ai carabinieri. Tutti costoro in mancanza di caserme, trovarono alloggio in vari edifici del centro storico: nel seminario, nell’episcopio, nelle Chiese della Trinità, di San Francesco, nel monastero di Santa Maria, nella cappella di Santa Lucia, di San Nicola, di San Giuseppe, di San Rocco ed anche in una parte del Tribunale, mentre alla cavalleria furono destinate alcune taverne e vari androni per lo più umidi ed inospitali. Il generale Chabet, anch’egli piemontese come il De Rolland, operò saggiamente ed ottenne il plauso della città, che gli intitolò la strada di Monte Reale. Egli si distinse soprattutto per la cura con la quale ebbe ad organizzare la difesa di Potenza contro il paventato assalto dei briganti, che in 1400, comandati da Crocco e da Borjes, avevano attaccato Vaglio il 15 novembre 1861. L’assalto al capoluogo fu scongiurato perché tutta la popolazione in forma unitaria si era mobilitata senza distinzione di ceti, con tutti i suoi sacerdoti, i suoi professionisti, gli artigiani ed i popolani rispondendo spontaneamente all’appello del De Rolland e dell’Amministrazione Comunale; ma anche perché il forte presidio militare aveva scoraggiato le schiere brigantesche. Era bastato che il generale Chabet, dopo aver piazzato i cannoni presso i bastioni di San Carlo ed aver disposto le truppe in vari punti strategici della città, inviasse un drappello di 200 uomini a volteggiare sui Piani del Mattino, per determinare una sorta di ritirata preventiva da parte delle schiere di Crocco e Borjes, che ripiegarono su Pietragalla e poi nei boschi del Vulture”.

Al di là dei lati romanzati, nel libro di Alianello i fatti descritti da Riviello e che Alianello dice di osservare e rispettare sono quasi inesistenti. Riviello è citato solo tre volte e solo una volta per un aspetto che potrebbe essere associato al mistero del mancato assalto della città. La stessa riduzione cinematografica ha spesso un diverso canovaccio rispetto al testo del romanzo. I fatti nudi e crudi, mettendo fra parentesi l’esistenza o meno di un Comitato segreto borbonico di Potenza (in un prossimo articolo focalizzerò più dettagliatamente l’atteggiamento di Potenza nel 1861 verso i Piemontesi e lo Stato unitario, da un lato, e verso i borbonici, dall’altro), dicono altro e confermano invece la convinzione di chi scrive e la versione di uno stimatissimo storico regionale come Giura Longo. Crocco ebbe paura di uscire dall’assalto a Potenza e dallo scontro con l’imponente forza militare del presidio potentino con le ossa rotte. Intanto, l’esercito di 1400 briganti non aveva alcuna arma di artiglieria e invece Potenza disponeva per la sua difesa di due cannoni che avrebbero fatto fuoco dall’alto in basso. Ebbe paura di perdere la faccia con una cocente sconfitta, di perdere la libertà e di perdere tanti suoi uomini. Eh… ma si dirà… e le sue memorie scritte anni dopo nei penitenziari di Santo Stefano e di Portoferraio (scritte ovviamente con l’ausilio e l’assistenza di ufficiali italiani)? Per conservare il suo mito, il mito di colui che poi fu definito l’Emiliano Zapata italiano, non potrebbe aver detto delle menzogne, almeno su quel punto? Per coprire il tradimento non fatto a lui dai misteriosi accoliti del Comitato segreto borbonico di Potenza, ma da lui fatto al Borjes oppure più semplicemente ancora per evitare uno scontro di cui aveva paura, ma senza passare per un codardo? Ipotesi, ancora ipotesi, ma c’è un fatto che potrebbe illuminarci ancora e che accadde poche ore dopo la ritirata e la rinuncia ad assaltare Potenza. In quel momento Crocco decise di ripiegare su Pietragalla. Come andò a Pietragalla? Dunque, andò in un modo strano; Crocco mise a ferro e fuoco il paese, ma, nonostante ciò, stava per perdere e perse molti tra i suoi uomini migliori. Qui il racconto passa a Saverio de Bonis, autore di «La difesa di Pietragalla», del 1889. «Prima dell’attacco Borjés invitò il comandante della Guardia nazionale ad arrendersi; la risposta negativa fu accompagnata da una bandiera tricolore issata sul punto più alto del palazzo ducale. L’attacco ebbe inizio e la battaglia fu cruenta. Solo durante la notte il luogotenente Marginet riuscì a trovate un varco, in breve tempo l’intero paese fu occupato, tranne che il palazzo ducale, somigliante ad una vera fortezza da cui si domina tutto il paese. Il mattino dopo la battaglia si acuì nuovamente e tutti i tentativi di assalto al palazzo ducale risultarono vani, da lì i cittadini opposero una valida resistenza, fulminando qualsiasi dei briganti si fosse spinto innanzi o fosse passato a tiro di fucile». Per farla breve, i briganti, ormai stanchi e dopo aver accumulato molte perdite, dovettero fuggire anche perché a sostegno dei pietragallesi stavano arrivando reparti della Guardia Nazionale di Acerenza e di Potenza. Nella delibera del 21 novembre 1861, la Giunta municipale di Pietragalla indicò ben ottantuno cittadini “che più si distinsero in quelle ore”. Il documento, recuperato durante gli ultimi interventi di sistemazione dell’archivio storico comunale, è tra quelli messi recentemente in mostra dagli archivisti Maria Pietrafesa e Donato Pafundi. I resistenti, dunque: l’elenco comprende 8 civili ( il sindaco, un calzolaio, un cantiniere, uno studente, un sarto, un falegname, un contadino e un barbiere); 17 esponenti del clero secolare (13 sacerdoti, un vicario foraneo, un seminarista, un accolito, un cantore); un esponente del clero regolare; 62 esponenti della Guardia nazionale di Pietragalla (2 capitani, 10 sergenti, 4 luogotenenti, 10 caporali, 3 sottotenenti, 20 militi, 13 riserve). Le vittime tra i pietragallesi furono solo due. Morale della favola, a ulteriore conferma della mia convinzione e della tesi di Raffaele Giura Longo. Se l’esercito brigantesco non riuscì ad avere ragione di poche centinaia di semplici cittadini di Pietragalla, anzi ne uscì scornato e sconfitto, avrebbe potuto mai avere la meglio su una forza militare come quella racchiusa nella roccaforte di Potenza? Ogni risposta sarebbe inutile e retorica.

CONSIDERAZIONI FINALI

Come è ben noto, con i se (di Alianello) e con i ma, non si fa la Storia. Nella Storia non c’è la controprova, però possiamo provare a delineare delle ipotesi. Dunque, Casa Savoia, già prima dei rimossi fatti di Potenza del 16 novembre 1861, cominciava a propendere per una clamorosa ed unilaterale rottura dell’appena raggiunta ed agognata unità nazionale. Pensava sempre più convintamente di rinunciarvi e di abbandonare il Sud. La stessa segreta propensione perdurò anche dopo i fatti qui narrati, almeno fino al 1863, esattamente fino al 15 agosto del 1863. Ma sul finire del 1861 Casa Savoia ancora non lo fece e non lo fece perché prima o poi sapeva di potersi  giocare la sua ultima carta a disposizione. Quella carta aveva un nome che è rimasto impresso nella memoria; Legge Pica. La terribile Legge Pica, fu effettivamente giocata quasi due anni dopo, nel 1863, e cominciò a rovesciare sempre più la situazione a favore dello Stato italiano e di Casa Savoia. Ma dalla fine di novembre del 1861, dopo la mancata conquista di Potenza, fino al 15 agosto del 1863, la situazione, pur mantenendosi gravissima, era cambiata in meglio per Casa Savoia almeno in un elemento, un elemento non proprio secondario e che Casa Savoia ovviamente aveva ben valutato; la fine del brigantaggio politico, la fine del binomio esplosivo tra Casa Reale Borbonica e le bande dei briganti. Senza questa miccia disinnescata, e furono i fatti o i mancati fatti di Potenza a disinnescarli, le cose sarebbero andate immediatamente in ben altra maniera e dubito fortemente che il governo di Torino, contando i soldati del Regio Esercito caduti nelle varie imboscate brigantesche, avrebbe, con la caduta di Potenza, avuto ancora la voglia ed il margine per andare avanti e provare a schiacciare nel sangue i moti briganteschi, come poi accadde. Ovviamente, lo ripeto, la Storia non offre controprove. Si può solo tentare di fare dei ragionamenti ipotetici basati su dati storici reali. E però, fare queste ipotesi ragionevoli non equivale esattamente a fare della fantastoria. Perché Potenza non cadde e non fu assaltata? Abbiamo visto che anche su questo punto fondamentale si fanno dei ragionamenti ipotetici plausibili, pur non potendo disporre di una impossibile verità. Alianello ed i neoborbonici dicono che c’era la possibilità di conquistare la città, ma dicono pure che qualcuno o qualcosa impedì alla truppe di Borjes e di  Crocco di farlo. E poi c’è chi, non essendo meno titolato di Alianello, dice, invece, e lo dico anche io, anzi ne feci un fugacissimo cenno già due anni fa parlando della identità potentina, che la causa vera per cui Potenza non fu attaccata risiede in quella che, giustamente, doveva sembrare a Borjes ed a Crocco (molto più al secondo che al primo, anche perché il talento autentico di stratega militare ce l’aveva Crocco e non Borjes, come avrebbe dovuto essere in via teorica) l’impressionante forza militare del Regio Esercito dislocata a Potenza. Come ho ribadito poco sopra accennando anche ai fatti di Pietragalla. Mi fermo un attimo qui per riesaminare un ulteriore, quanto ancor più obliato, aspetto. Nella narrazione storica di Alianello c’è un particolare interessante e cioè la quasi sicurezza che una volta che le truppe brigantesche fossero riuscite ad arrivare, nonostante i due cannoni, a pochi metri dalla città, a quel punto improvvisamente i popolani sarebbero insorti e, a sorpresa, si sarebbero rivoltati non contro i briganti ma contro i soldati italiani e contro gli stessi concittadini che parteggiavano, come tutti in città, per il Regio Esercito e per Casa Savoia. Nel fortunato sceneggiato televisivo di Anton Giulio Majano del 1980 ci sono colloqui che non si trovano invece nel libro. In quei colloqui il sindaco di Potenza dell’epoca assicura a Chabet e a De Rolland che a Potenza tutta la popolazione è con lo Stato unitario. Non so quanto lo scrittore Alianello si intendesse di tattiche e strategie militari perché l’eventualità da lui assicurata può avere un duplice esito. Parlando più chiaramente, il 16 novembre 1861, grande data storica mai riconosciuta ed anzi rimossa del tutto dalla memoria storica italiana ma finanche cittadina, potevano succedere due cose; poteva succedere ciò che il reazionario Alianello rimpiangeva non fosse accaduto e cioè che il popolo basso di Potenza avrebbe assalito non i briganti ma i propri concittadini oppure che la resistenza unitaria della città, qualora l’attacco fosse stato veramente sferrato, sarebbe stata decisiva per respingere i briganti e per far vincere la causa risorgimentale ed unitaria. Solitamente in quelle situazioni è proprio il popolo basso ad essere determinante per un esito o per quello opposto. Sul comportamento del popolo basso di Potenza le parole di Giura Longo non danno adito a dubbi; il popolo potentino fu tutto schierato come un sol uomo a difesa della città e della causa unitaria. I piccoli e misteriosi episodi ricordati dal brigante Crocco e riportati nel romanzo ‘L’eredità della Priora’ non sembrano tali da mutare questo indirizzo. A questo punto voglio cercare di pervenire ad una sintesi dei fatti; il popolo potentino schierato a difesa della città e della causa unitaria insieme alla potente dotazione di uomini ed armi presenti in città furono i veri elementi che costrinsero le truppe brigantesche a rinunciare alla conquista di Potenza con tutto quel che ne seguì. La resistenza dell’Esercito Regio e del popolo potentino fu determinante affinché i briganti rinunciassero alla conquista di Potenza, nel caso fosse stata vittoriosa per Crocco, e affinché l’Italia rimanesse unita? Già spesso è difficile trovare le prove di un fatto, figuriamoci le prove di un mancato fatto. Però, ciò non vuol dire nemmeno che non sia accaduto nulla la notte del 16 novembre 1861 a Potenza. La resistenza fu un fatto, la disposizione corale ed unitaria tra militari e popolo fu un fatto, la ritirata dei briganti fu un fatto. Anche se le conseguenze del 16 novembre 1861 non fossero state direttamente ed immediatamente tali da salvare l’Unità d’Italia, anche se la conquista brigantesca di Potenza non avesse messo in pericolo l’Unità d’Italia resta comunque la potenza simbolica del fallimento del Borjes e di Crocco, da un lato, e della vittoria morale di Potenza, dall’altro, e resta il fatto che, come dice il sito neoborbonico, lo ricito, legittimisti borbonici e briganti persero l’unica vera e grande occasione per far tornare i Borboni nel Sud: “Non occorreva essere grandi strateghi per capire che, se l’“affondo” su Potenza fosse stato sferrato al momento opportuno e nei termini del progetto lungamente predisposto, difficilmente i Savoia sarebbero sfuggiti ad una disfatta che avrebbe posto serie ipoteche sul loro regno”, sostengono i neoborbonici.

Nessuno può avere ancora una tesi storicamente sicura né le controprove di quello che poteva succedere nei vari casi, quindi ciò che sto per dire non vuole avere alcuna pretesa di verità storica, essendo solo una opinione personale, né pretendo minimamente che l’opinione personale che sto per esporre abbia valore anche per altri. La mia convinzione personale, anche in base ai fatti che si svolgevano in quel preciso momento in tutta l’Italia meridionale ed alla corte sabauda a Torino, è che se Potenza fosse stata assaltata e fosse caduta, l’Unità d’Italia sarebbe finita da lì a pochissimi mesi. Ma anche a prescindere dai fatti e dalle loro conseguenze o mancate conseguenze, dipende da quale angolo visuale li vediamo, quella notte su Potenza spirò una freddissima e brutta aria di Finis Italiae ed è per questo che quella vicenda avrebbe meritato non solo di essere presa in ben altra considerazione, ma anche di essere valutata per una ulteriore ricompensa al gonfalone cittadino. Per concludere, penso che Potenza avrebbe avuto diritto a ben tre medaglie d’oro al Risorgimento e non solo ad una, quella dei fatti del 1860. Penso che avrebbe avuto diritto ad una seconda medaglia per i fatti del 1848 ed ad una terza medaglia per i fatti oscurati, più che oscuri, della notte del 16 novembre 1861, quando, sotto i bastioni di San Carlo a Potenza, l’Unità d’Italia appena raggiunta da pochi mesi, rischiò già di finire. Però, ciò non sarebbe stato possibile. Intendo dire altre due medaglie non sarebbero state possibili. Anche se Casa Savoia avesse considerato tutto quanto scritto qui, non avrebbe potuto comunque assegnare tre medaglie d’oro ad una stessa città. Nulla da obiettare su questo. Se non tre medaglie d’oro, l’Italia avrebbe dovuto, anzi dovrebbe, però ulteriormente apprezzare il grandissimo sforzo patriottico compiuto da una cittadina posta al centro ed a capo di una regione ‘impossibile’ ancora oggi, figuriamoci nel 1861. Dove tutto giocava contro Potenza; clima, natura impervia della regione, ignoranza bestiale delle masse, povertà dinanzi alla quale anche la povertà di altre regioni povere del Sud (non dell’Italia, ma solo del Sud) sembrava già ricchezza e tanti altri fattori ancora. Considerando la graduatoria degli onori e le motivazioni degli stessi, già esaminati in apertura, Potenza meriterebbe ancor più del suo già prestigioso e lusinghiero dodicesimo posto nella graduatoria di città care alla Patria perché città che hanno fatto il Risorgimento. Azzardo? Ma sì… azzardo. Considerando tutto quel che non è stato considerato nel 1898, quando Casa Savoia decise di ricompensare con i più alti onori le città italiane che più avevano contribuito alla grande epopea risorgimentale ed unitaria, la mia idea è che Potenza meriti non il già, lo ribadisco, molto lusinghiero dodicesimo posto, ma qualcosa ancora di più, qualche posizione ancor più in su nella scala degli onori. Diciamo, la settima posizione invece della dodicesima. Non è questo un discorso sportivo, né una posizione vanagloriosa fine a se stessa, ma anche nel mondo del prestigio storico e dei riconoscimenti storici nessuno regala niente a nessuno (a Potenza di sicuro nessuno regala niente su questo piano, forse ad altri sì). Non si tratta solo di un legittimo orgoglio storico che vorrei fosse ancor più riconosciuto. Non si tratta solo di Storia, ma anche di geopolitica. Non si tratta solo del passato, di un glorioso passato che vale ancor più di quanto è stato già riconosciuto, ma si tratta anche del presente e del futuro. Sento in giro discorsi sempre più strani, discorsi che parlano di autonomia differenziata per alcune regioni e per altre no, di macroregioni, assisto a celebrazioni che non si reggono su alcuna legittimazione reale, ascolto molte cose strane insomma a diversi livelli e su diversi piani. Allora, il discorso di dare a Potenza quel che è di Potenza non si riflette solo sul piano del prestigio storico ed identitario; va oltre. Tocca il presente, tocca il piano geopolitico e politico, tocca gli interessi ed il ruolo della città hic et nunc. Il ruolo nella Regione Basilicata, ma anche il suo ruolo nel Sud e nell’Italia. E’ un discorso rivolto potenzialmente a tanti soggetti, locali e nazionali. Vogliamo che il nostro ruolo, che il ruolo di Potenza nel processo unitario e risorgimentale sia valutato nel giusto modo, cioè in maniera ancora più importante di come fu riconosciuto nel 1898, ma, soprattutto, vogliamo che esso non sia dimenticato dall’Italia di oggi e da quella che verrà. Prima di sapere cosa l’Italia vorrà fare nel presente e nel futuro per Potenza, vorrei che lo Stato italiano non dimenticasse mai cosa la piccola Potenza ha fatto per l’Italia.

PINO A. QUARTANA

Nella foto; una scena tratta dallo sceneggiato televisivo ‘L’Eredità della Priora’ del 1980. Questa è la scena in cui il Prefetto (l’Intendente), De Rolland, ed il capo della piazza militare di Potenza, il generale Chabet, danno la notizia al sindaco di Potenza che le schiere brigantesche hanno smesso di assediare la città.

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