MOMMSEN, IL PIU’ GRANDE STORICO DELLA ROMA ANTICA, A POTENZA  

Theodor Mommsen, chi era costui? Il nome dirà poco al grande pubblico, ma di tutto si tratta meno che di un Carneade. Fu una personalità poliedrica, ma soprattutto è stato, o è, il più grande storico della antichità romana. Il grande storico e giurista tedesco, Theodor Mommsen (1817-1903), dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza all’Università di Kiel e orientato le sue prime ricerche sulle questioni del diritto pubblico e dell’amministrazione romana con le dissertazioni di dottorato e il primo libro sui collegi e le consorterie, iniziò a viaggiare in Italia ed in Francia, tra il 1843 ed il 1847. Gli studi storici del diritto preromano lo indussero all’analisi della struttura giuridica e linguistica di documenti oschi (Oskischen Studien, 1845) ed al successivo approfondimento di altre lingue italiche e preromane del meridione d’Italia (Die unteritalischen Dialeckte, 1850). L’osco è la lingua che veniva parlata dall’antico popolo dei Lucani prima dell’arrivo in Lucania dei Romani. La passione per le antichità lo spinse, inoltre, alle ricerche epigrafiche, riconducendolo sul terreno della storia e della filologia, in una continua tensione fra diritto e vita. Nel corso del soggiorno in Italia il Mommsen frequentò a Roma la scuola antiquaria di Bartolomeo Borghesi e di G.B. De Rossi, stringendo con costoro duratura amicizia. Al Borghesi dedicò il frutto delle ricerche sulle epigrafi latine del Regno delle Due Sicilie (Inscriptiones Regni Neapolitani Latinae, IRNL ,1852), primo passo verso la monumentale CIL (Corpus Inscriptionum Latinarum). Il lettore a questo punto già si starà chiedendo perché parlo del più grande storico della antichità romana. Il motivo ovviamente c’è ed è strettamente connesso all’opera di ricerca, di diffusione e di valorizzazione del lungo periodo romano di Potenza, della lunga storia romana di Potenza (Potentia). Un passato che, man mano pubblichiamo articoli frutto della nostra ricerca, sembra sempre più importante. Il Mommsen fu in Basilicata, e precisamente a Potenza e Venosa, nel 1845, ospite della famiglia D’Errico, osservando personalmente numerose epigrafi e documenti. Nel dicembre del 1846 fu a Grumento. Non c’è da meravigliarsi che soggiornò solo a Venosa, a Potenza ed a Grumento. Come ho già scritto varie volte, Venosa, Potenza e Grumento sono stati i tre centri più importanti della attuale Basilicata durante la dominazione romana, cioè lo sono stati per ben settecento anni, sette lunghissimi secoli ed il fatto che Potenza, Venosa e Grumento furono al centro della indagine di Mommsen è una ulteriore prova dell’importanza della storia di Potenza durante i secoli del dominio romano. Anche in questo caso potrei ben dire che nessuno, o quasi, si era mai accorto prima a Potenza ed in Basilicata di questo dato. Ma, detto e puntualizzato ciò, riprendiamo pure la narrazione del soggiorno di Mommsen a Potenza e della importanza di tale soggiorno.

Alcuni anni dopo, ottenuta nel 1852 dall’Accademia di Berlino la direzione del monumentale “Corpus”, Mommsen si avvalse, fra gli altri, della collaborazione dei dottori Giorgio Kaibel e Carlo Robert, i quali, giunti nel 1874 a Potenza, visitarono la collezione di reperti antichi del professore di storia e geografia Bonaventura Ricotti (1809-1876), poi donata dalla sorella del Ricotti al seminario potentino. I due collaboratori del Mommsen si recarono anche a Grumento, ospiti di Francesco Paolo Caputi, per prendere nota di vasi e iscrizioni, rivederne le lapidi e controllare le schede di Francesco Saverio Rosselli, pubblicate nella “Storia Grumentina”, dal Mommsen giudicate false o interpolate. Il continuo interesse del grande studioso tedesco (premio Nobel per la letteratura nel 1902) per l’area lucana è confermato dai rapporti che intrattenne sia con l’architetto Giuseppe D’Errico, che continuò a raccogliere per lui ulteriori epigrafi, sia con il “signore” di Venosa che gli indirizzò, nel 1874, un “manoscritto” contenente dati e notizie sulle epigrafi di quella cittadina. Giuseppe D’Errico, architetto, era uno dei rappresentanti di una delle famiglie borghesi più illustri e colte di Potenza, un degno esponente di quella borghesia liberale potentina, che ha regalato a Potenza un Secolo d’Oro (1799-1899), che ben poche altre città italiane del Sud, e non solo del Sud, possono vantare.

Mommsen, freddo studioso tedesco di cose morte di tanti, tanti anni addietro rivela dietro questa apparente freddezza “da maestro di cerimonie funebri”, come scherzosamente si autodefiniva, un lato umano molto caldo e sensibile. Questo lato umano del tedesco Mommsen, del più grande storico e studioso al mondo della romanità e dei secoli pagani, emerge inaspettato quando si rivolge ai suoi corrispondenti. Per la Basilicata abbiamo l’epistolario intercorso con l’architetto ‘potentinus’ Giuseppe D’Errico. Ho fatto una selezione di questo scambio e ne riporto due o tre. Eccole:

Al signor Don Giuseppe D’Errico

Architetto

Potenza

Rispettabilissimo Signore!

Siccome siamo rimasti delusi nella speranza di rivedere qui il Signor Don Mauro, che ci disse di volervi andare subito, ora non voglio indugiare più mandandovi colla posta un libricino uscito da poco di cui il solo titolo per meritare la vostra attenzione sarà che tratta di cose patrie. Aggiungo un’altra copia per il vostro degnissimo Signor Padre, di cui non facilmente dimenticheremo la cordiale accoglienza che lui ci fece insieme con tutta la vostra amabilissima famiglia. Don Giulio mi incarica di rinnovellarvi parimenti i miei/suoi ringraziamenti particolari per la esimia gentilezza che gli avete mostrata, di cui conserva come preziosissimi ricordi le impronte di non poche medaglie. Ho scritto a Roma per farvi nominare Corrispondente del nostro Istituto e ne ho avuto risposta favorevole, come facilmente credere si può; intanto mi hanno rinnovellato la condizione di cui già vi parlai, cioè di mandare prima qualche notizia che potrebbe essere aggradevole a quel ceto letterario. Spero perciò che dalla ricca messe che ci ha fornito l’inesausto suolo lucano negli ultimi anni Voi ci presenterete fra poco una bella spigolata.

Fate le mie veci col Signore vostro padre, con Don Mauro, col vostro signore zio e insomma con tutti quanti che serbano la nostra memoria; e credetemi più col cuore che colla penna.

tutto Vostro

Theodor Mommsen

13 novembre 1846

 

17 dicembre 1846

Gentilissimo signor D’Errico!

Non avreste potuto farmi dono più gradito del vostro foglio del 24 novembre, ricco di tante belle ed inedite iscrizioni. Se ognuna delle vostre sortite frutterà  tanto all’epigrafia, quanto allora dobbiamo sperare nelle vostre ricerche! Ci darete proprio una Lucania rediviva. Permettete che vi dica due parole su ognuna delle quattro pietre. La prima, mi appare pregevolissima  perché è la sola lapide rimastaci dell’antica Bantia in idioma latino (…).

Eccole i miei deboli sentimenti sopra questa importante lapide che avete scoverta. Se non vi appagano, almeno ne rileverete quanto conto io ne faccia e quanto vi sappia grato di avermi favorite queste notizie che mi fate sperare non essere ancora tutte quelle raccolte nel vostro viaggio. Vi ho parlato con la solita mia franchezza perché troppo vi stimo per parlarvi altrimenti. Sabato parto per Roma dove mi occuperò subito della vostra nominazione  e dove spero di ricevere fra poco da voi un’altra lettera così piena ed erudita, che pure mi sarà un ricordo delle ore piacevoli passate a casa vostra. Riveritemi intanto tutta la vostra famiglia e vi prego particolarmente di fare le mie veci con le signorine. Don Giulio già mi ha preceduto a Roma. Più col cuore che colla penna mi dico

tutto Vostro

Mommsen.

Il gigante della storiografia antica insomma rimase abbastanza colpito e forse anche toccato dalla gentile e calorosa accoglienza dei D’Errico nella loro casa potentina: “ipse adulescens adii Potentiam, Grumentum, Buccinum, Atinam, Caggianum, Pollam, Dianum titulosque ibi prostantes descripsi” (CIL X, p. 20).

Giuseppe D’Errico si può definire un personaggio sconosciuto alla letteratura di riferimento, il quale, tuttavia, come altre personalità non rintracciabili nelle citazioni particolari e non sempre ritenute meritevoli di essere registrate nei piú accreditati percorsi biobibliografici, agevolò il conseguimento dell’impresa epigrafica. Di lui e della sua famiglia il Mommsen ricordò nelle ILRN (e poi anche nel CIL) l’affettuosa accoglienza tributata durante la sua permanenza a Potenza nel 1845, com’è ratificato chiaramente nell’introduzione alle iscrizioni di Potentia: “ego fui Potentiae et descripsi quae supererant, adiutus singulari comitate DD. d’Errico” (IRNL p. 22), «ego a. 1845 Potentiam adii quaeque tum prostabant descripsi adiutus singulari comitate dominorum d’Errico” (CIL X, p. 21); una situazione favorevole che, tuttavia, non si ripeté con Georg Kaibel (1849-1901), inviato dal Mommsen nell’antica città romana della Lucania, ai tempi del Mommsen già capoluogo della regione, al fine di aggiornare il censimento locale per l’edizione del volume X. Di Giuseppe d’Errico, in particolare, Theodor Mommsen apprezzò anche l’interesse scientifico verso la res epigraphica e la sua tutela, al punto tale da proporlo come Socio Corrispondente dell’Istituto Archeologico Germanico di Roma. (cfr. Ciccotti 1903), come si evince chiaramente già dalle due lettere sopra riprodotte. Giuseppe D’Errico morì nel 1874.

A Potenza, che non è solo l’erede dell’antica Potentia, ma che è ancora ancora oggi un tutt’uno con Potentia, il più grande studioso della antichità romana e della Storia di Roma vide epigrafi, le interpretò, le trascrisse, insomma, vide tutto ciò che la città a quel tempo metteva in evidenza. Come ho già detto in precedenza in riferimento ad Emanuele Viggiano, a quei tempi (prima metà del 1800) a Potenza dovevano essere ben visibili ancora rovine che da tempo sono scomparse e di cui si è persa la memoria. Una delle epigrafi romane che Theodor Mommsen trascrisse fu la, finalmente discretamente nota, epigrafe dedicata alla Dea Mefiti Utiana. Una premessa rivolta a chi non è di Potenza, ma posso dire tranquillamente, anche a chi è di Potenza ma non conosce quasi niente della storia della propria città o della città che abita. L’epigrafe fu rinvenuta nel sottosuolo di Piazza Martiri Lucani, dell’attuale Piazzetta dei Martiri Lucani. Questo spazio del centro cittadino fino al  1901 non si chiamava così; si chiamava con un nome antichissimo che proveniva dai primordi arcaici della città, dagli inizi arcaici e protostorici di questa antichissima città (IV° secolo a.C.). Si chiamava Largo della Dea Mefiti (o Mefiti Utiana). La storia della Dea pagana e del suo culto è densa di fascino e ne ho già fatto cenno in precedente articolo anch’esso dedicato alla storia di Potenza nei lunghi secoli di Roma antica. Dove oggi si trova la Banca d’Italia, vi era il vecchio Palazzo delle Poste, che fu abbattuto in periodo fascista proprio per costruire il palazzo della Sede della Banca d’Italia. Uno dei toponimi della Piazzetta, anche se non ufficiale, era Largo Castellucci, dal nome di una importante famiglia della città. E quindi il Viggiano quando nel 1806 parlava di alcune di quelle rovine romane a cui ho prima fatto cenno, diceva che nell’ex Largo della Dea Mefiti, dal 1901 Piazzetta dei Martiri Lucani, ci “sono residui dell’ara del Tempio Novo innanzi Castellucci”. Incredibile; il Viggiano ai primi del 1800 vedeva ancora dei resti di quello che tanti secoli prima era stato il Tempio pagano di epoca romana di Potenza. O, forse, solo uno dei Templi pagani della Potenza romana. Molto probabilmente si trattava del Tempio dedicato alla Dea Mefiti. Non saprei in quale altro modo interpretare questa affermazione. Un qualcosa scomparso dalla memoria dei potentini da tempo immemorabile e che oggi dovrebbe provocare negli abitanti contemporanei della città capoluogo della Basilicata un certo choc emotivo e culturale. Ovviamente, positivo. E qui, in questo piccolo spazio del centro, il sottosuolo restituì l’epigrafe che destò l’interesse di Mommsen. Ma il Mommsen a Potenza trovò anche altre cose. Una di queste ve la presento come primizia assoluta. Non risulta che se ne sia mai scritto o parlato nella nostra città. Prima di introdurvi la preziosa primizia faccio una breve premessa sulle “settimane planetarie”. Cosa erano? Erano dei sistemi di computazione dei giorni e del calendario. Nella tarda Antichità, tra il I° secolo ed il III° secolo d.C., l’Impero Romano sostituì gradualmente il ciclo della settimana basato su otto giorni con una settimana di sette giorni, proprio come adesso. Una delle prime evidenze di questo nuovo sistema di calcolo è il graffito pompeiano che si riferisce alla data del 6 febbraio dell’anno 60 d.C. indicato come dies Solis (in inglese Sunday cioè giorno del Sole ed in italiano invece indicato con il non riconoscibile nome di Domenica). I nomi erano derivati dai pianeti della astrologia ellenistica nel seguente ordine; Domenica (che però in italiano non fa capire nulla, mentre l’inglese Sun è perfettamente chiaro e coerente; Sun = Sole = Dies Solis), Lunedì, che anche in inglese è chiaro essendo Monday (giorno della Luna), Martedì (più chiaro in italiano che in inglese; Mars=Marte=Martedì), Mercoledì (dal nome del Dio Mercurio o Hermes della tradizione esoterica), Giovedì (il Dio Giove ed il pianeta Giove danno il nome al giorno del Giovedì). Il venerdì viene da Venere, Dea della Bellezza (detta Afrodite nel mondo greco) e Sabato da Saturno (il Cronos greco),  che in inglese è più chiaro (Satur-day). E veniamo alla domenica. Come ho appena detto, in italiano l’origine antica del nome non è riconoscibile perché l’italiano ’Domenica’ non viene dalle tradizioni della Antichità classica, ma è una innovazione cristiana introdotta da Costantino. Invece nel giorno di Domenica la radice antica resiste, appunto, nell’inglese Sun-day, ma anche nel tedesco Sonn-tag. I monumenti della settimana planetaria nell’Impero Romano sono molti ed è da loro che riceviamo la maggior parte delle informazioni che ci riguardano. In base agli studi più aggiornati sappiamo che il planetario era in uso tra i romani prima che la chiesa cristiana fosse istituita. Qui noteremo alcuni dei più interessanti monumenti dell’Impero Romano, tra cui frammenti di calendario e tavole astrologiche. C’è un libro dal titolo inglese di “Sunday in the Roman Paganism” (La domenica nel paganesimo Romano”) di Robert Leo Odom (Teach Service Publisher, USA, 2003) nel quale vengono approfonditi proprio questi aspetti.

Ora il lettore si starà di nuovo chiedendo cosa c’entri questa erudita trattazione con Potenza. Ci arrivo subito. In questo prezioso libro sulla romanità c’è un capitolo che parla delle ‘settimane planetarie’ (planetary week) ed il primo caso di ‘settimana planetaria’ che l’autore Odom cita è proprio lo stesso di cui Theodor Mommsen parla nel suo trattato sui calendari romani, dove presenta un disegno di un frammento di pietra di una tavola astrologica romana che serviva per la tabulazione delle ore planetarie del giorno. A sinistra di ogni nome degli dei planetari (delle divinità pagane, in altri termini n.n.) c’è un buco nel quale è stato inserito un piolo per segnare l’ora che gli appartiene. Alla destra di ciascun nome appare una delle tre lettere B (bonus), C (communis) e N (nefastus) che servivano per indicare, nei calendari planetari, che un giorno o un’ora erano buoni, normali o cattivi per eventi o imprese. L’ora di Saturno e il suo giorno erano invariabilmente considerati dai pagani come sfortunati (nefastus) e questo contribuiva molto alla loro antipatia per il sabato, il settimo giorno, che le Sacre Scritture dichiarano essere sacro. Anche le ore e il giorno di Marte erano generalmente considerati dai pagani come sfortunati (è rimasta una traccia nell’idioma popolare italiano secondo cui di martedì non si parte n.d.r.)  sfortunati perché questo Dio era il Signore della Guerra e dello spargimento di sangue. Il lettore si starà ancor più chiedendo cosa c’entri tutto ciò con Potenza. Mi ero dimenticato di dirvelo. Il frammento della tavola astrologica del periodo romano di cui scrivono Mommsen e Odom è un pezzo di marmo. Si tratta di un pezzo di marmo trovato nel 1830 nelle rovine di un antico borgo situato alla bocca del fiume di Potenza. Di quale Potenza? Della cittadina di Potenza Picena o di Potenza tout court, della nostra Potenza, del capoluogo della Basilicata? No, nessun equivoco: si tratta proprio di Potenza in Lucania, della nostra Potenza, ed il fiume ovviamente è il Basento.

PINO A. QUARTANA

 

Nell’illustrazione; ritratto di Theodor Mommsen

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