POTENZA-MATERA: CONFRONTO FRA DUE CITTA’ TANTO DIVERSE, TROPPO LONTANE

Pubblichiamo nella sezione ‘Reprint’ questo interessante articolo di Lucio Tufano uscito nell’ottobre del 1998 sulla rivista ‘Lucania Finanza’ (‘Potentia Review’ ha ereditato i diritti di pubblicazione degli scritti apparsi su quella rivista). E’ una ripubblicazione, un reprint, dunque. E’ un articolo che colpisce non solo per l’acutezza e l’originalità delle sue tesi, ma, ancor più, perché da allora, dal 1998, in Basilicata non è cambiato assolutamente nulla. Il confronto, o, meglio, la mancanza di confronto o di incontri, tra Potenza e Matera è sempre allo stesso punto; zero o quasi, anzi la situazione recentemente è peggiorata ancora di più. Sulla prevalenza in questa regione di quella che noi abbiamo ribattezzato ‘la subcultura basilisca’, la stessa subcultura stigmatizzata da Tufano alla fine di questo scritto, si può dire lo stesso; non è cambiato nulla, anzi, anche da questo punto di vista la situazione è soltanto peggiorata. Ancora è maggioritaria ed anzi, sempre recentemente, si è posta come egemone in campo regionale e finanche sovra regionale. Nulla di nuovo sotto il sole, purtroppo. (Potentia Review)

 

L’identità di una città non può ricavarsi solo dalla storia delle generazioni che l’hanno popolata, né da quanto si racconta di essa, né dalle vicende che l’hanno attraversata, né da quello che si riesce a leggere di qua e di là grazie a volenterosi cultori di storia locale. La storia di una città è lunga, quasi eterna, ed è per questo motivo che occorre rifarsi ai reperti (a qualsiasi tipo di reperto), alla tradizione orale e praticata nonché a quella materiale, alle notizie ricavate dai vecchi giornali, ai segni impressi sulle pietre, i grafici del tempo. Le città – si è scritto – rappresentano grossi archivi della memoria. Il fatto è che la lettura di una città si fa con lo spirito della medianità, penetrando le epoche alla guisa di un bruco, studiandone i costumi, le mentalità, le economie … L’identità della città si rileva da tutto un insieme di fattori geografici, topografici, climatici, antropologici, urbanistici, storici, sociologici … peraltro in via di evoluzione. Parlare perciò di Potenza e di Matera, le due città capoluogo di provincia, ma, si può dire, tout court, della regione lucana o Basilicata, significa riassumere in un quadro piuttosto chiaro tutti i dati e le connotazioni che le caratterizzano. Entrambe le città sono dotate di centri storici da conservare (anche se per diversi motivi), entrambe hanno subito la speculazione e registrato ritardi ed errori analoghi (a loro tempo denunciati dalle inchieste della rivista ‘Basilicata’); le questione del Rione Sassi a Matera e del Rione Addone a Potenza, la storia dei due piani regolatori, i rispettivi progetti di recupero con Piccinato a Matera e Beguinot e Lugli per Potenza. Le distanze del passato che hanno tenuto lontane le due città e, quindi, i loro modi di essere e di organizzarsi sono riconducibili a cause note. La disposizione territoriale, i richiami gravitazionali di Napoli per Potenza e di Bari per Matera, l’energia dispersiva e centrifuga di un asse mai ben saldo su cui far leva per le politiche di sostegno e di difesa degli interessi regionali, fattore questo che ha lasciato decentralizzare i fermenti culturali e l’utilizzo delle risorse stesse, un certo carattere competitivo nonché la diffidenza ed un certo senso di estraneità di una cultura per l’altra hanno reso non più prorogabile l’esigenza, in realtà, già sentita fin dagli anni ’80, di perseguire il raggiungimento di un grado di osmosi fra i due capoluoghi, fra le due città della Basilicata, e di avviare un processo di integrazione culturale a favore della immagine regionale e del riequilibrio territoriale della stessa regione nella sua interezza. Tutto ciò va fatto, fermo restando, naturalmente, le peculiarità caratteristiche delle due città e le loro più profonde radici, ben sapendo come siano entrambe uscite da un isolamento istituzionale ed infrastrutturale che oggi va definitivamente superato per collegarsi con il resto dell’Europa. “Capitale dei contadini”, Matera è sempre stata concepita come un topos per la intellighentia, che, su di essa sperimentò progetti e prefigurò soluzioni di meridionalismo anni ’50 con la poetica di Rocco Scotellaro e di Carlo Levi; una visione attinta dal triangolo Gaudiano-Aliano-Grassano (anni ’30). Una visione intrisa di mistica della  povertà cui gli antropologi come De Martino, Friedman e Peck hanno attribuito una sorta di dignità trionfale, utile alla forte richiesta di riscatto sociale che emergeva nel secondo dopoguerra. Amministrativa e burocratica, Potenza è, invece, da quasi due secoli la città delle circolari prefettizie e delle  proiezioni ministeriali. Nel corso degli ultimi cinquant’anni (lo scritto, lo ricordiamo, è del 1998 n.d.r.) cinquantennio è stata teatro di una vertiginosa ricostruzione edilizia ed è stata laboratorio del ‘potere carismatico’ di una Democrazia Cristiana che per tutto quel periodo di tempo è stata classe dirigente e che ha eletto Potenza a suo domicilio politico. Sede di massicci fenomeni di urbanesimo e di trasformazioni sociali nonché di accelerata terziarizzazione, Potenza si è caratterizzata sempre per un sempiterno rapporto politico-amministrativo con Roma, rapporto che ora però sembra definitivamente spezzato o, per lo meno, non più funzionale alla soluzione dei problemi, né al mantenimento del potere e della sua più duratura stabilità. “Sì, è vero – dice Saverio Acito, ex sindaco di Matera – nessuno può disconoscere il merito di Levi per la sua denuncia, ma ora non si può contrabbandare una idea o una immagine della Basilicata ancora in quelle drammatiche condizioni. Si sono costruite famiglie e rendite del levismo che non hanno più alcuna possibilità di rifugiarsi nella, più volte ostentata, denuncia del riscatto sociale. Quest’ultimo ha dominato gli anni del secondo dopoguerra, pur avendo costituito linfa vitale per la demagogia politica e per le politiche assistenziali del cosiddetto meridionalismo. Oggi questa finzione storica non può più avere alcuna prospettiva di futuro. Con la sinistra al governo, il vecchio retaggio del lamento meridionale non ha più ragion d’essere”. E’ anche per questo che l’ingegner Acito ha rappresentato una condizione urbana più moderna delle precedenti. Egli ha condotto da amministratore una importante operazione di restauro nel centro storico di Matera non imposta dall’alto o dai tecnici, giacché non basta, come sostiene l’ex sindaco della Città dei Sassi, operare un recupero del centro se non si ‘vive’ in esso. Con il sindaco Acito si è ottenuta la riscoperta della città, l’attuazione del Piano Regolatore Generale dell’architetto Piccinato, si sono riprogettate le piazze e se ne è qualificata l’importanza. Si è, inoltre, avviata l’azione di recupero del comparto Sassi (legge 771 del 1986) operando al cospetto di una società articolata nelle sue componenti tradizionali; commercianti, artigiani, media e piccola borghesia, agricoltori e contadini, senza dire di una imprenditorialità, che, tutto sommato, accettava la politica del ‘rigore’ imposta dalla Amministrazione come strategia risolutiva delle questioni pendenti. Un sindaco del ‘no’ che operava in direzione delle esigenze generali nelle quali trovavano collocazione quelle individuali? “L’opera pubblica – continua lo stesso Acito – non come spesa, né come spreco, bensì come iniziativa per migliorare l’aspetto e la funzione della città e per creare nuove occasioni di imprenditoria e di lavoro”. Oggi, in un’epoca di frantumazione della politica, Acito si schiera con il ‘centro’ cioè con i programmi, come egli stesso dichiara. “Non siamo per la città-regione, piuttosto – aggiunge Acito – siamo per la regione delle città cioè delle autonomie. Dal 1970, da quel PRS (Piano Regionale di Sviluppo) del Presidente Verrastro, abbiamo avuto solo proposte di Piani di Sviluppo formulate e mai approvate. Tutta la letteratura delle ipotesi di sviluppo formulate, da Azzarà fino a Michetti e fino a Boccia, con l’avvio dell’operazione Leonardo Cuoco, più le teorie dello sviluppo auto propulsivo, della Basilicata Verde e della regione-laboratorio, non hanno prodotto un piano approvato”. Insomma, per Acito, con l’assenza di un PRS effettivo ed in corso di attuazione, si è sempre ottenuta la frammentazione degli interventi, la deprecata attuazione di interventi a pioggia e non si è prodotto lo sviluppo così come non si sono create le infrastrutture. Nella sua ipotesi di assetto della città di Matera, Saverio Acito auspica un progetto di ‘città murgiana’. Una città territorialmente attenta a candidarsi con il ‘rigore’ e la singolarità che la caratterizzano ad esercitare la promozione dell’intera regione in uno sforzo comune con le altre realtà locali ricche di ulteriori peculiarità in direzione di un sistema nuovo della intera Basilicata. “Un sistema lucano – precisa Acito – che si basi su una particolare sinergia tesa ad esaltare ogni specificità. Così Potenza – conclude l’ex sindaco di Matera – potrà espletare il suo ruolo culturale  ed economico. In modo analogo, tutti i tasselli del mosaico regionale potranno riscoprire la loro importanza e valorizzarsi”. Acito, infine, conferma l’esistenza di un piano organico “condiviso” in cui si ritrovino e si riconoscano senza fughe, furbizie o arretramenti e con lo spirito di solidarietà elementi propri di quel federalismo solidale che vede nei municipi i punti di riferimento essenziali: “dai municipi alle Regioni e non viceversa”. Ma Gaetano Fierro, anch’egli ex sindaco ma di Potenza, sostiene che, a differenza delle altre regioni, la Basilicata manca di una città-guida, che l’antico ruolo di Potenza, città-potere, negli ultimi anni è venuto meno non essendo più supportato da volontà politiche capaci di fare di essa la città trainante. Oggi – sottolinea Fierro – per ragioni demagogiche si sono volute elevare le estreme periferie a quartieri trainanti della città e nei miseri bilanci di questi decenni, Potenza conta poco più di un comune di 10 mila abitanti, pur erogando servizi e funzioni sovra comunali. La città è in agonia – afferma Fierro – assillata da autentiche emergenze e sofferenze per un forte isolamento in campo regionale e nazionale. E’ accerchiata dal Melfese, che, con l’insediamento Fiat, agita nuovi protagonismi, dalla Val d’Agri, che si avvia a divenire, con il petrolio, un presidio ancor più importante ed autorevole, dal Materano che registra dati positivi e dinamiche nuove nell’export. Fra l’altro – dice ancora Fierro – il trasferimento di alcuni importanti Enti ed il depotenziamento dell’Università della Basilicata, in chiara difficoltà, dell’Ospedale Psichiatrico e dell’Enel, stanno determinando assieme ad altri elementi di decentramento e di scarsa capacità di leadership, la caduta verticale della sua tradizionale funzione di capoluogo regionale rispetto ad epoche del 1900, prefasciste, fasciste e dorotee (democristiane n.d.r.), che l’hanno vista in costante relazione con i poteri centrali di Roma. La mancanza di continuità con quella cultura di governo, propria di una classe dirigente che, sebbene piramidale e verticistica, aveva fatto della stabilità politica, anche per la forte e ramificata presenza di un leader come Emilio Colombo, il suo maggiore elemento di prestigio (a sostegno di questa tesi, l’ex sindaco di Potenza cita il noto studio sul caso Basilicata di Putnam) è, per Fierro, l’indicatore principale della crisi della città. Egli sostiene che in questi ultimi anni si sono avvicendati alla dirigenza di tutti gli enti istituzionali esponenti estemporanei della politica privi di esperienza di governo e della necessaria conoscenza della tradizione politico-amministrativa di Potenza, la cui identità si è sempre retta su un rapporto continuativo con Roma. E qui Fierro rileva lo scompenso di cui oggi soffre la città di Potenza, una sorta di passo indietro, quasi un salto mortale perfino rispetto all’epoca del prefetto Quaranta, ‘deus ex machina’ del destino urbano nonché edificatore di importanti comparti della città. In sostanza, Fierro potrebbe aver visto giusto se si pensa che nell’immaginario collettivo il ruolo della città, vista come sede del ‘Palazzo’, è stato demolito, per motivazioni demagogiche, da tutti coloro che esaltavano strategicamente la subalternità periferica rispetto alla stessa dignità della città capoluogo con le logiche confusionarie del decentramento amministrativo esasperato; consigli di quartiere, decreti delegati, comitati di fabbrica, comitati di coordinamento post-sisma, consigli del ‘cratere’, Comunità Montane, distretti scolastici e Patronati, sindaci della fascia A, B e C in occasione dei finanziamenti della legge 219 sul terremoto. Peraltro, qualche Presidente della Regione andava convocando l’organo di governo regionale in guisa di cattedra ambulante nelle località più disparate del territorio regionale, ai fini di una più forte valorizzazione delle stesse, comportamento questo adottato anche da altri Presidenti fino all’ultimo Presidente del Consiglio Regionale, che avrebbe avuto in animo di convocare l’assemblea regionale in punti periferici ritenuti ‘strategici’ della Basilicata in omaggio ad un, forse, ambiguo progetto di unità territoriale della regione. Questa appena descritta ci appare come una variante sbagliata della omogeneità identitaria della regione, così come del tutto stonato, del resto, ci sembra il rafforzamento di un malinteso spirito di competizione attivato dalle città e cittadine lucane nei confronti della città capoluogo, cosa che si evinceva chiaramente da un volantino che circolava qualche tempo fa in occasione del rinnovo del Consiglio Comunale di Matera, dove alcuni ambienti politici hanno condotto la loro campagna elettorale con lo slogan ‘Matera capitale’. L’altro aspetto che determina la stasi della città di Potenza è la scarsa permanenza in città della classe docente dell’Università, fenomeno più volte lamentato dal Rettore Fonseca. I professori, una volta giunti a Potenza, non hanno altra ambizione che quella di andare via, trascurando i rapporti con la società residente e con le migliori espressioni (accademiche e non) della cultura lucana, senza neppure tentare di porre le basi di possibili scuole di pensiero autoctone. A distanza di 17 anni dalla sua nascita, l’Università degli Studi di Potenza  appare ancora come un corpo estraneo al tessuto della città. Questo è diventato un dato generalmente condiviso. In definitiva, le quattro cause della decadenza di Potenza. Intesa anche come città-regione, consistono in una classe dirigente inadeguata, nella mancanza di un ceto accademico forte e di espressione locale, nella conflittualità incontrollata scatenata da un esasperato municipalismo infraregionale, ed infine, dalla politica di decentramento forzato che non solo non era necessaria, ma che non è neppure inserita in un  progetto di crescita civile e democratica. Una tale dinamica di involuzione istituzionale e politica alimenta processi subordinati che consentono a chiunque di muoversi arbitrariamente nei più disparati settori della realtà. Pro-loco che si autocelebrano e che celebrano ad ogni piè sospinto la microstoria del localismo, comuni che non perdono occasione per commemorare personaggi ed eventi, spesso, insignificanti, sagre organizzate senza una sicura mappa della produzione alimentare e culturale e con scarsa affluenza di prodotti gastronomici (e di produzioni culturali qualificate), che, spesso, peraltro, non sono autentici, intellettuali che si muovono autonomamente come si considerassero capiscuola di correnti d’arte e di pensiero, ma che invece non hanno alcun collegamento con le realtà metropolitane nazionali ed europee o con le avanguardie più illuminate della modernità, associazioni e gruppi che promuovono iniziative distanti e senza ricadute turistico-culturali sul territorio e che quasi mai privilegiano la civiltà urbana. In tutte queste manifestazioni vi è l’esaltazione perpetua delle esperienze (beninteso, anche essenziali) delle sensibilità e delle testimonianze maturate in epoche trascorse e che sono collegate soprattutto ad una enfatizzazione inesauribile delle poetiche di moda negli anni ’50; le poetiche del mondo contadino, la rassegnazione di quel mondo all’acquitrino ed alla malaria, l’elegìa ed il pianto delle prefiche dai lunghi scialli neri, il paese e lo ‘strapaese’, la ‘rabata’, e il ‘cupa cupa’. Cose queste, ostentate in pubblicazioni, in performances artistiche o pseudo-tali, in feste di piazza. Poetiche espresse in toni narcisistici, come se si fosse sicuri di poter esercitare una egemonia culturale (quella che abbiamo appena definito della ‘mistica della miseria’). Poetiche messe, quel che è ancora peggio, in patetica concorrenza con i prodotti (e con le produzioni culturali) ‘alti’, propri delle culture metropolitane, delle culture urbane, delle culture moderne, delle culture europee. Anche in Lucania (o Basilicata) è esistito ed esiste tutto un patrimonio di storia e di civiltà espressione di civiltà urbana e moderna che andrebbe totalmente recuperato. Tutto questo lo diciamo senza voler togliere nulla a quell’altra Lucania (o Basilicata) della sua autenticità e della sua legittimità. Crediamo solo che valga la pena di evidenziare meglio la complessa identità del mosaico lucano, che è prezioso perfino nei suoi più minuti tasselli, per far sì che tutto giochi, con le culture urbane in testa, a favore di una immagine più adeguata e veritiera di questa regione, una immagine che ristabilisca una armonia funzionale interna. In questo contesto, le due città della regione, pur nella loro diversità, dovranno confrontarsi ma anche incontrarsi maggiormente per stabilire un asse urbano Potenza-Matera, che abbia riflessi significativi sulla produzione culturale regionale. Infine, esse dovranno marcare con più forza la propria specificità rispetto al contesto più generale dell’intera Basilicata.

LUCIO TUFANO

 

Foto; a sinistra la sede del Comune di Potenza – a destra; la sede del Comune di Matera

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