LA MIA POTENZA, LA MIA LUCANIA

intervista a Giovanni Russo, scrittore e giornalista (a cura di Fabio Fontana)

Questa intervista a Giovanni (per alcuni, Giovannino Russo) fu pubblicata nel 2006 sul periodico ‘Lucania Finanza’, un periodico trimestrale di cui ‘Potentia Review’ ha rilevato i diritti in esclusiva di pubblicazione degli articoli che furono pubblicati da quel periodico, il quale si occupava prevalentemente di tematiche economiche. Giovanni Russo è oggi l’ultimo dei meridionalisti viventi. Nato a Salerno nel 1925, ha vissuto tutta la sua giovinezza a Potenza, la città che lo ha formato e da cui poi andò via per stabilirsi definitivamente a Roma nel 1947. Tra i fondatori del Partito d’Azione in Lucania, ha scritto prima su Il Mondo di Mario Pannunzio (dove fu proposto dallo scrittore Carlo Levi e dove ebbe modo di stringere amicizia con Ennio Flaiano) e su Il Messaggero, per diventare poi (1954) inviato speciale del Corriere della Sera. Per il quotidiano milanese ha svolto numerose inchieste raccontando con particolare attenzione soprattutto i problemi sociali e civili della società meridionale e dei suoi emigrati. Russo ha avuto come impegno costante la documentazione della situazione sociale del Paese: dalle vicende dei partiti ai problemi del Mezzogiorno, fino alla condizione dei giovani nella scuola e nell’università. Ha vinto il Premio Saint-Vincent per il giornalismo nel 1964. Tra i suoi libri più importanti “Baroni e contadini” (1955, vincitore del Premio Viareggio), “I nipotini di Lombroso. Lettera aperta ai settentrionali (1992)”, “Perché la sinistra ha eletto Berlusconi?” (1994), “Lettera a Carlo Levi” (2001), “Carlo Levi segreto” (2011), “Con Flaiano e Fellini a Via Veneto. Dalla ‘Dolce vita’ alla Roma di oggi” (2006). Oltre alla sua pluridecennale collaborazione al Corriere della Sera, Giovanni Russo ha vinto molti premi letterari: i già citati Premio Viareggio e Saint Vincent ed inoltre i Premi Marzotto, Casalegno, Pannunzio, Mezzogiorno e Positano.

(Potentia Review)

 

Come nasce il suo interesse per la Basilicata? E da quando ha cominciato a frequentarla?

Direi che nasce dal fatto che io non ho mai lasciato, né dimenticato né trascurato la Basilicata e, quindi, l’ho sempre, come dice Lei, frequentata, ma soprattutto nasce dal fatto che mi sono radicato in Lucania. In un certo senso, credo di essere una specie di lucano onorario perché c’è stato un innesto sulla mia origine campana. Infatti, io sono nato a Salerno, mentre mio padre era di Sala Consilina e mia madre di Padula. Sono arrivato a Potenza bambino, avevo circa tre anni se ben ricordo, e ho fatto le elementari a Potenza. Quindi, sono cresciuto a Potenza: ancora oggi, quando torno a Potenza, vado a vedere dietro Piazza Prefettura le scale che salgono da Piazza XVIII Agosto verso Via del Popolo e vado a guardare il palazzo dove facevo le elementari. La mia maestra era una zia di Emilio Colombo, una delle sorelle Tordela: a scuola ebbi quindi questa prima sensazione di rapporto diretto con la Lucania. In che cosa mi ha formato questa infanzia lucana? Lei mi fa venire dei ricordi. Per esempio, quando questi ragazzini potentini, si ricordi che io venivo dalla provincia di Salerno, nella seconda e terza elementare mi inseguivano dicendo salernitano scaccia cane, uccidi pidocchi e suona campane… una cosa tremenda che non ho mai dimenticato! Era un ritornello contro, diciamo così, un extracomunitario, ma, poi, dopo un po’ di tempo, mi sono integrato a Potenza.

Si potrebbe dire, comunque, che Lei essendo nato da genitori cilentani fosse già, in un certo senso, nato lucano!

Questo può essere… poi, c’era un’altra cosa: io ero piccolino di corporatura e c’erano sempre sfide tra ragazzi. Ricordo che mentre tornavo a casa, a Via Pretoria, abitavo a Palazzo Biscotti, c’era sempre qualcuno che mi diceva: “tu me la fai a me!” Io rispondevo per orgoglio:”No, non te la faccio!”. Così ogni tanto mi picchiavano! Non ho mai raccontato queste cose…è strano. C’erano due giochi che si facevano da ragazzi, sto andando fuori tema lo so. Uno era briganti e carabinieri. Non so se i bambini di oggi ci giochino ancora oggi. Comunque un gruppo di bambini faceva i briganti ed un gruppo i carabinieri. Io sceglievo di fare il brigante, correvo, mi nascondevo e così via. Mentre altri dovevano catturarmi. Non so se questo gioco nascesse dalla tradizione antica in ricordo di quella che era stata in Lucania l’epopea o la tragedia del brigantaggio; comunque, si faceva questo gioco.  Poi, c’era un altro gioco che definirei quasi di tipo anglosassone: il pizzico. Lei lo conosce? Si giocava con un pezzettino di legno con cui bisognava colpirne un altro più piccolo e buttarlo lontano; sotto Via Pretoria e nei vicoli si giocava a questo gioco in cui ero molto bravo. A scuola, come  Le dicevo, c’era questa professoressa Tordela che era di straordinaria bravura. Questa donna aveva un’esigenza molto ferma e molto precisa nell’insegnare l’italiano. Debbo dire che, in un certo modo,se poi sono diventato giornalista ed ho scritto in maniera decente  lo devo a questa maestra elementare che era molto brava, molto precisa e faceva fare dei temi molto liberi. Perché sono arrivato alla mia infanzia passata a Potenza? Vede, io sono capitato a Potenza perché mio padre era impiegato del Banco di Napoli. O meglio; mio padre era il direttore della Cassa di Risparmio di Salerno, ma quando capitò che la Cassa di Risparmio di Salerno fu assorbita da altre banche mio padre rimase senza lavoro, disoccupato. Mio padre non era né fascista né antifascista, ma non voleva avere raccomandazioni e così ricominciò la carriera da impiegato del Banco di Napoli, filiale di Potenza, e dunque ci trasferimmo da Salerno a Potenza. Poi, c’è stato, sempre a Potenza, il Liceo Classico”Quinto Orazio Flacco”, con un preside famoso, De Laurenzis, un latinista ferreo. Ma cosa c’era in questa mia educazione a Potenza che poi ho constatato essere un fatto molto positivo rispetto alla Campania e ad altre regioni del Sud? C’era il fatto che, come è nel carattere dei lucani, si giudicava una persona se era coerente con il suo rigore civile, anche scolastico, e questi erano tutti fattori che hanno costituito e costituiscono ancora oggi uno degli aspetti positivi dei lucani.

Lei ha anticipato il senso della seconda domanda che volevo porLe: volevo chiederLe, cioè, se esiste una specificità nell’essere lucani e quindi una differenziazione rispetto alle altre regioni del Meridione…

Io l’ho constatata personalmente. Secondo me, esiste l’educazione all’avere rispetto per se stessi e per gli altri e, soprattutto, mancava in Lucania, dove c’era un certo individualismo, quella tendenza, almeno allora, al lassismo morale. Non so adesso. La mentalità lucana non è una mentalità omertosa, questo è il punto. L’individuo viene rispettato se è un individuo che si comporta onorevolmente e questo costituisce un fatto molto positivo in un Mezzogiorno in cui c’è la tendenza a non aver rispetto per certi valori. Ora, ripeto, non so se oggigiorno sia ancora così, purtroppo, le cose cambiano.

Io credo che sia ancora così, almeno in buona parte. Comunque, proprio a riguardo dell’individualismo…

C’era un altro aspetto dell’individualismo lucano, un atteggiamento molto critico, rispetto a ciascuno. Non è possibile in Lucania, soprattutto a Potenza, farsi passare per una persona interessante o particolare senza dimostrarlo.

Ma l’individualismo può essere inteso anche quale un limite. Penso, per esempio, al fallimento in certe zone della Riforma Agraria.

L’individualismo, senza dubbio, è un limite. Io mi ricordo, a proposito della Riforma Agraria, che, cominciando il mio lavoro di giornalista, andai a fare una inchiesta mentre si procedeva alla attuazione della legge, per l’esattezza negli anni ’50 quando Rossi Doria andò ad Avigliano. Oppure ricordo i contadini di San Cataldo, una frazione vicino Bella, un posto incredibile: quando arrivai lì era talmente isolato dal mondo da non aver nessun rapporto con la società normale. I contadini di San Cataldo non compravano nessun oggetto dell’industria moderna. Facevano tutto loro; avevano tavolini, letti, comodini, ma anche piatti tutti in legno fabbricati da loro stessi. Il letto si chiamava scaraiazzo, mi pare. In questo paese si doveva fare la Riforma Agraria ed i contadini erano talmente individualisti che non intendevano in alcun modo accordarsi per creare una cooperativa. Fu molto difficile ottenere che loro si mettessero assieme per stabilire un accordo sociale. Uno degli ostacoli maggiori era questo: per decidere facevano ‘parlamento’ perché avevano delle vecchie tradizioni tedesche essendo di origine sveva. Al parlamento partecipavano anche le donne perché dovevano decidere se trasferirsi o meno. Tra l’altro, poi si sono trasferiti a Scanzano Jonico dove è avvenuto tutto questo movimento politico attuale. Ebbene, ho sempre pensato che la mobilitazione di Scanzano è stata così importante ed è riuscita ad ottenere successo proprio perché è rimasta questa tradizione di libertà e di ribellione della vecchia società contadina, ma, forse , mi sbaglio.

Proprio per quanto riguarda le rivendicazioni di Scanzano, quello che mi ha colpito è che una regione si sia comportata in quel modo.

Questo è il lato positivo di ciò che è successo, anche se lo si deve al fatto che si sia comportato malissimo il generale Jean; ha agito come i vecchi piemontesi quando arrivarono in Lucania dopo l’Unità; un errore di fondo. La regione si è compattata moltissimo perché era stata tradita una  delle sue speranze maggiori; quella del rinnovamento agricolo. Là erano state poste le premesse per uno sviluppo agro-industriale moderno.

La polpa…

La polpa del Mezzogiorno contro l’osso e quindi è venuta fuori questa capacità di mobilitazione. E sono stati bravi anche i rappresentanti  politici che hanno saputo interpretare queste ragioni. Poi, ci sono stati tanti altri problemi, il sindaco di Scanzano è stato inquisito, però, nel complesso, l’errore di fondo del governo è stato quello di imporre il deposito di scorie. Certo, esiste un problema dovuto al fatto di non sapere dove mettere queste scorie, ma non si vede perché si dovessero mettere proprio lì.

Ma non Le sembra paradossale che una volta che ci si mobilita vengano tirati fuori i briganti, mentre, poi, magari, la civiltà contadina viene misconosciuta dai più? Quello che voglio dire che c’è sempre questo riferimento un po’ giovanile, per certi aspetti, ai vari Ninco Nanco, Crocco e briganti vari.

Questo esiste perché esiste una doppia interpretazione del brigantaggio sul quale c’è una ambiguità di fondo ovviamente anche nella ricostruzione del brigantaggio fatta alla Grancia; come si chiama?

La storia bandita.

Questa storia bandita è stata creata da Tommaso Pedìo. Comunque, la faccenda è questa: c’è una doppia interpretazione sul brigantaggio, una polemica in merito. Pensi che ho polemizzato sul brigantaggio anche con Paolo Mieli, il mio direttore, il direttore del ‘Corriere della Sera’, che è anche uno storico. C’è una tendenza ad interpretare il brigantaggio come un segno di rivolta contadina alla ricerca di libertà e di autonomia, una jacquerie. Poi, invece, c’è un revisionismo in cui il brigantaggio viene presentato come una ribellione organica che aveva anche una funzione e quindi gli anni del brigantaggio vengono letti come una guerra civile.

Qualcuno ha parlato anche di guerra coloniale.

Sì, dai tanti aspetti negativi. Per esempio, molti paesi sono stati messi a fuoco, ma i briganti non scherzavano di certo. Basta leggere l’autobiografia di Carmine Crocco e il modo in cui loro entravano nei paesi. Per me, al fondo del brigantaggio non era tanto un problema di lotta contro lo Stato, ma un problema di rapporto di classe. C’era la borghesia, da una parte, e, dall’altra, il mondo contadino che si sentiva estraneo e oppresso. Con l’Unità d’Italia il tema dei diritti dei contadini non fu mai esaminato a fondo, anzi con lo scioglimento dei demani comunali e con la vendita delle terre degli enti ecclesiastici capitò che le possibilità che i braccianti contadini avevano di fare legnatico o di pascolare in comune vennero limitate da una borghesia rurale che se ne impadronì. Questo avvenne soprattutto in Calabria, ma anche in Lucania. A questo aspetto si univano le ragioni politiche; c’erano anche i soldati borbonici. Ora, il brigantaggio rievocato a Scanzano nasce perché una parte del mondo lucano vuole interpretarlo come segno orgoglioso di rivolta, ma io scrissi un articolo sul “Corriere della Sera” dicendo che non si doveva far riferimento ad un’epoca che non c’entra affatto con il presente.

Però, come Le chiedevo in precedenza, ciò che colpisce è che i giovani abbiano tutta questa attenzione per il periodo del brigantaggio mentre per il periodo delle lotte agrarie e dell’occupazione delle terre c’è, non dico indifferenza, ma molto meno interesse. Perché, secondo Lei, una figura come Scotellaro al giorno d’oggi non ha la stessa risonanza di Crocco e di Ninco Nanco?

Secondo me, ciò avviene per due ragioni: innanzitutto, perché la storia dei briganti è avvolta nell’aureola di un mondo in cui c’era un certo coraggio individuale. Vorrei capire, poi, se questi giovani, di cui parla Lei, sono di origine borghese o contadina. Secondo me, è rimasta una traccia come si vede nei romanzi di Alianello, “L’Alfiere” e “L’eredità della Priora”. In questi lavori letterari c’è tutta una epopea che riguarda il mondo borbonico e poi c’è il fatto che si è fatta troppa retorica sull’occupazione delle terre e su Scotellaro. Quest’ultimo è stato talmente utilizzato che è come se fosse in parte consumato. Quindi, non lo so, dipende dal modo. Ma questi giovani di cui Lei parla vengono dalle parti di Potenza?

Sì, ma non solo. Io ho avuto la fortuna ed il privilegio di frequentare per un certo periodo di tempo Rocco Mazzarone, di cui, peraltro, volevo che Lei tracciasse un ricordo. Egli sosteneva che, in realtà, se ne era parlato troppo e male. C’era stata una sovraesposizione di Scotellaro e della sua vicenda ed in più Mazzarone diceva lo stesso anche di Levi, che sostanzialmente aveva delineato una immagine della Basilicata, che era fortemente caratterizzata: una porzione cioè che non esauriva né rappresentava tutto il territorio in sé…

Io penso che Mazzarone abbia avuto ragione. Di Mazzarone, tra l’altro, dovrebbe uscire un mio ricordo sul Corriere della Sera. Mazzarone è stato molto legato a Carlo Levi ed è stato pure colui il quale ha raccolto le lettere e le memorie di Rocco Scotellaro. Rocco Mazzarone diceva delle cose esatte: il “Cristo si è fermato ad Eboli” non deve essere interpretato come un ritratto della Basilicata, ma come una trasposizione profetica e poetica di un mondo contadino che nella immaginazione di Carlo Levi e del mondo in generale rappresentava l’immagine di una società sospesa tra la realtà e la magia contadina: tutti motivi che colpirono questo piemontese confinato lì e che aveva però letto Giustino Fortunato, Salvemini, Dorso, che aveva avuto rapporti con Gobetti. Il libro di Carlo Levi ha giovato a lanciare il nome della Basilicata nel mondo, ma, nello stesso tempo, è un libro che può far pensare che la regione si riduca solo a quel mondo.

Anche geograficamente, paesaggisticamente, aveva dato forse una interpretazione circoscritta della regione.

E’ un libro circoscritto dall’esperienza, è una trasposizione artistica, narrativa, anche se ha delle radici sociologiche, ma non è uno specchio della società lucana nella sua interezza. Ed è stato un errore da parte della borghesia lucana voler polemizzare a tutti i costi con Levi; bisognava inquadrarlo in un certo modo. Tra l’altro, ho letto uno scritto di Pino A. Quartana sul levismo e sul modo in cui Levi viene riproposto oggi e mi trovo d’accordo con lui; esiste un certo manierismo intellettuale nei levisti.

Sono, del resto, le radici metastoriche e metafisiche che accomunano tutto il mondo contadino occidentale: dall’Irlanda alla Russia passando per il nostro Mezzogiorno.

Basta studiare Propp per capire quali sono le spiegazioni delle favole. Ci sono molte rassomiglianze. Su Mazzarone debbo aggiungere che è stato un grande personaggio che appartiene alla tradizione illuminata della Basilicata. Lui era anche medico ed è stato un vero e proprio punto di riferimento anche ideale.

Mazzarone negli ultimi anni della sua vita era molto pessimista sulle possibilità di sviluppo economico, agricolo e sociale: insomma, aveva uno sguardo piuttosto tagliente ed amareggiato sulla Basilicata di oggi.

Amareggiato per quello che è successo. Mi ricordo che quando l’ho conosciuto, nel 1943, lui guardava al futuro della Basilicata con maggiori speranze; aveva contribuito alla creazione dell’ospedale di Tricarico e si batteva per certi ideali. Gli ideali di allora, però, non si sono realizzati non solo in Lucania ma un po’ in tutta Italia.

Lei pensa che la Riforma Agraria sia stata un’occasione perduta? Vedendo i poderi abbandonati a Tricarico ed Irsina ed il conseguente riaccorpamento del latifondo odierno in certe zone la sensazione di abbandono è forte.

La Riforma Agraria ebbe un valore politico e sociale. Si può dire che, in parte, sia fallita, è vero, però, in quel momento rifletteva la necessità di trovare una via di sbocco, all’aspirazione della terra, al bisogno della terra del mondo contadino e politicamente serviva per contrastare l’ideologia comunista e le forze comuniste che volevano cancellare la proprietà privata tramite l’esproprio generale: “la terra ai contadini” era uno slogan e quindi De Gasperi, che si batté molto per la Riforma Agraria, trovò in essa quella soluzione democristiana che si ispirava al concetto della piccola impresa e che economicamente era contraria a quello che poteva essere lo sviluppo di una economia moderna, tanto è vero che, come dice Lei, adesso stanno riaccorpando: i fondi erano troppo piccoli, le terre non sempre sfruttabili. Cos’è che ha fatto fallire la Riforma Agraria? E’ stata la tecnologia e lo sviluppo del mondo industriale moderno. E’ successo che il mondo contadino di fronte all’evolvere della modernità se ne è andato. Questa agricoltura di sussistenza, come veniva percepita anche da Don Sturzo e dal mondo cattolico, ed anche in qualche modo dall’idea della terra ai contadini, è stata travolta dalla rivoluzione silenziosa dei contadini che hanno preferito diventare operai a Torino, a Milano, a Zurigo. Contadini-operai da me raccontati in un libro chiamato ‘I santi in Paradiso’. Mi ricordo che nell’autunno caldo a Torino parlavano tutti in dialetto lucano o calabrese o siciliano e quindi a Torino erano gli ex contadini che facevano la rivoluzione; questa è la verità. Gli stessi sindacalisti, ce ne era uno famoso, Pugno, furono portati avanti da un movimento che non aveva radici settentrionali.

E quindi è finita questa civiltà contadina, anche se ci sarebbe da chiedersi se sia effettivamente mai esistita.

Anche studiosi di grande valore non legati direttamente all’antropologia, quali Rossi Doria, consideravano il mondo contadino come un mondo che conteneva dei fattori di autonomia positiva. La civiltà contadina è finita perché è esistita come fattore di immobilità. Quando non esisteva lo sviluppo economico moderno, in questo Levi aveva capito qualcosa, esisteva questo mondo chiuso portatore di certe relazioni, di  costumi, di un modo di essere: la civiltà contadina. Pensare che in questo mondo ci fossero i germi di uno sviluppo moderno non era concepibile. La civiltà contadina si è dissolta e con esso il mondo contadino. Però, alcuni fattori sono rimasti: chi è legato alla Basilicata non può fare a meno di certi modi di essere, dai rapporti sociali al modo di mangiare, che hanno radici antiche.

Proprio a riguardo di Manlio Rossi Doria, però, mi viene in mente che quando parlava dell’agricoltura del micro-latifondo contadino lucano la bollava come ‘una autentica pazzia’ per il carattere irrazionale di certe pratiche dettate dalla miseria. Rossi Doria era anche molto scettico nei confronti del turismo. ‘Chi volete che vada a fare il turista  a San Chirico Raparo?’ amava ripetere, turismo che risulta essere una delle motrici economiche lucane più gettonate al giorno d’oggi. Qual è la Sua opinione in merito?

Secondo me questo scetticismo è stato il grande limite del meridionalismo. E’ stato il limite di Saraceno, di Compagna ed anche in qualche modo di Rossi Doria, anche se un po’ negli ultimi tempi aveva modificato le sue opinioni. Non esisteva allora la cultura ambientalista del paesaggio che poi è emersa negli ultimi anni, dovuta a pochi studiosi che hanno difeso la cultura ed i monumenti. Su tutti Antonio Cederna. Quindi, non si capiva all’epoca, così come non si è capito oggi, che in certi paesi esistono tracce del passato, chiese, monumenti che andavano difese e non deturpate, come si è fatto. Io ebbi un dibattito con Francesco Compagna che poi mi costò il termine di ‘meridionalista al basilico’ perché sostenevo che bisognava tener conto delle prospettive dell’agricoltura, ma anche di quelle del turismo. ‘Noi non vogliamo un Mezzogiorno di camerieri’, sostenevano, ma un Mezzogiorno industrializzato con una industria calata dall’alto. Naturalmente, non avevano neanche torto nel dire che i meridionali non erano in grado di creare da soli uno sviluppo industriale. Con gli ultimi anni le cose sono cambiate perché con lo sviluppo delle comunicazioni e dei trasporti si può andare a ricercare certi ambienti integri; voglio dire che il fatto che in Basilicata esistano ancora degli ambienti in cui c’è del verde, ci siano dei paesi interessanti, potrebbe essere un motore di sviluppo per il turismo. Anche perché chi ha viaggiato un po’ sa che la Basilicata, come l’Irpinia, è ricca di  zone belle come la Svizzera. Basterebbe organizzarsi un po’ , ma, purtroppo, la borghesia ed il mondo imprenditoriale locale non hanno la struttura, né la capacità di fare questo. Bisognerebbe chiamare un po’ di israeliani. Quelli magari che hanno trasformato il deserto del Neghev in un giardino.

E’ pure vero che in Val d’Agri il petrolio ha contribuito notevolmente a frenare ciò che Lei dice.

Io ho viaggiato spesso in Val d’Agri sia per la mia attività di giornalista che per il mio rapporto umano, sentimentale, come Lei ha visto in questa mia conversazione, legato ai posti della mia infanzia. Sono arrivato a Viggiano e altrove. Certo, c’è il problema del petrolio. La Regione Basilicata si vanta di aver ottenuto delle condizioni economiche molto vantaggiose, con delle risorse che permettono di proteggere e valorizzare l’ambiente, ma il problema vero è che non si è creato un rapporto equilibrato tra ricerca industriale e ambiente. Tuttavia, secondo me, un grande progresso c’è stato; per esempio, ci sono gli agriturismi, zone in cui gli alberghi funzionano; quindi, bisognerebbe avere una politica in cui il turismo funzioni. Se uno prende a modello l’Alto Adige, se si tutelano le risorse ambientali in parte ancora salvaguardate.

Mi sembra che da quello che dice Lei si evinca chiaramente la necessità di coniugare l’amore per la propria terra con la preparazione intellettuale, ma anche con una forte dose di passione politica.

Io ho avuto grandi esperienze politiche in Basilicata. Inizialmente, da ragazzo, insieme ad altri, ero sotto la suggestione del fascismo, anche se poi, in seguito, sono diventato antifascista. Ricordo che al Ginnasio si facevano dei temi in cui si parlava della grandezza del Paese per merito della guida del Duce. C’erano le adunate, le parate. Io non ero fisicamente eccezionale. Ero molto stonato e capitava che non mi mettevano in prima fila. C’era un capo manipolo che si chiamava Renato Cantore, il quale arrivava e diceva: ‘Russo’. Io rispondevo: ‘Presente’. E lui: ‘Via. E adesso cantiamo’. Quindi, mi toglieva dal gruppo e questo mi escluse. Non è che mi fece diventare antifascista, però, contribuì. Come pure l’amicizia con certi amici e la lettura di certi libri mi allontanarono, da una parte, dall’Azione Cattolica e, dall’altra, da un certo mondo borghese che a Potenza era antifascista; penso agli avvocati Reale, Pignatari e Rotunno. Insomma, a poco a poco maturai un certo antifascismo, tanto è vero che avevamo cominciato ad organizzare qualcosa con il fratello dello storico Tommaso Pedìo, Mario. Vorrei aggiungere che a Potenza ci fu un gruppo di giovani che fu arrestato. Avevano creato un gruppo antifascista molto forte, figli di operai e del mondo contadino. E’ una pagina di storia misconosciuta ai più e che andrebbe riscoperta. Noi, invece, più borghesi non fummo individuati. Infatti, verso il 1943, quando il fascismo stava già tramontando, entrammo in contatto con un giudice di Bari, Michele Cifarelli, che organizzava il Partito d’Azione e, quindi, creammo il Partito d’Azione a Potenza. Io sono stato uno dei fondatori del Partito d’Azione a Potenza insieme a Giuseppe Ciranna, Giuseppe Tropea e Sabia. Iniziammo ad avere un ruolo importante entrando nel CLN e facendo la campagna in occasione delle elezioni per il Referendum. Facemmo una lista molto interessante capeggiata da Carlo Levi e da Michele Cifarelli, lista che io ho raccontato in un libro. Io ho conosciuto Carlo Levi così, perché venne in Lucania a fare campagna elettorale nel 1946. Allora io cominciai la mia carriera di giornalista a Via Pretoria intervistando, ero proprio un ragazzino, Francesco Saverio Nitti che rientrava dal confino e quella fu la prima intervista che Nitti ebbe dopo il confino. Tra l’altro, rilasciavamo delle dichiarazioni per salvare dalle epurazioni delle persone che lo meritavano, come il professor Gallicchio che insegnava ‘Cultura Fascista’. Poi, dopo quella esperienza politica, c’è stata l’esperienza, anch’essa politica, dell’inchiesta sulla riforma agraria che ho pubblicato in ‘Baroni e contadini’ e, quindi, la lotta contro il potere assoluto della DC, la polemica con Emilio Colombo. Ero molto amico di Valenza, che è stato il segretario del Partito Comunista a Potenza, ero molto amico di Esposito che è stato segretario all’Istituto dei fratelli Cervi a Roma. Riuscimmo a non far creare il Fronte della Gioventù da parte dei comunisti e il Fronte non fu creato perché io proposi il movimento giovanile democratico. Poi, avemmo un incontro politico con Palmiro Togliatti, ma rimanemmo legati al Partito d’Azione. Mi dispiace molto che quando storici e giornalisti scrivono sulla Lucania essi sembrano non ricordarsi che in Lucania ci furono anche altre tradizioni politiche ed altre presenze. Questa cosa la dissi anche all’ex sindaco di Potenza, Tanino Fierro, e cioè gli dissi che a fianco dei movimenti cattolici e comunisti ci fu in Lucania anche un significativo filone composto da democratici, liberalsocialisti ed azionisti.

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